OSTERIA DEI POETI, GUCCINI: “FU IL PRIMO AMORE, CI SCRISSI PURE UNA CANZONE”

«Hanno capito che in via dei Poeti lascio per sempre qualcosa di me», cantava ai tempi Guccini, e fa un certo effetto riascoltare oggi la canzone che il Maestrone dedicò all’Osteria dei Poeti. Fu la prima delle tante ballate in cui avrebbe celebrato le Ostarie, come si diceva una volta, dalle Dame a quelle fuori porta. Ma i Poeti fu il primo amore, quello che non si scorda. Lo si intuisce dalla reazione di Francesco, al telefono nella sua casa di Pavana, alla notizia dei sigilli per bancarotta fraudolenta. «Bancarotta? Mi dispiace. Speriamo non chiuda. È una storia di quasi sessant’anni fa: ne avevo venti, ora quasi ottanta. Ma era il luogo della mia giovinezza, un periodo mitico».

 

Che cosa ha rappresentato per lei?

«È la prima delle osterie frequentate a Bologna, da studente negli anni Sessanta. Quando chiudevamo i libri, ci si incontrava in centro verso le sei di sera, e s’andava all’Osteria dei Poeti, il nostro ritrovo. Il nome era fascinoso, pensavamo ai poeti maledetti, in realtà si chiamava così, lo scoprii anni dopo, perché stava in quella via. E il nome della famiglia Poeti nulla c’entrava con la poesia».

 

Come era allora?

«C’era uno stanzino con il bancone dietro cui si vedevano le botti. Era un luogo molto triste in realtà, popolato in prevalenza da anziani dietro al mezzo litro di vino. Bianco o rosso, venticinque lire al bicchiere. Non c’erano i cocktail o gli aperitivi. Ci si accontentava di un bicchiere di vino e basta. Le osterie erano molto più serie di adesso. E alle otto tutti fuori».

 

Come divenne il “suo posto”?

«Qualcuno degli amici che frequentavo allora ci capitò per caso. Eravamo cinque o sei, tra i più cari Giorgio Celli, il futuro grande etologo, e Adriano Spatola, un poeta, che avrebbe poi fatto parte del Gruppo 63. Sono morti entrambi, e non solo loro, purtroppo. Giocavamo a carte, bevevamo, discutevamo di politica e poi ci portavamo le ragazze, le compagne di università. Talvolta qualcuno si presentava con un racconto da leggere, una poesia, io con una canzone nuova. Credo fossero gli anni in cui preparavo l’album “Radici”. Poi c’era Paolo, l’oste romagnolo, molto simpatico. Ma un giorno decise di andare in pensione, di tornare in Romagna. E così finì un’epoca. Ricordo ancora la cena d’addio per i clienti più intimi nelle meravigliose cantine con le volte a botte. Tornammo qualche volta anche dopo, ma era diventato una specie di piano bar, con una tale confusione che non ci si poteva scambiare due parole. E migrammo altrove».

 

Non prima di averle dedicato una canzone.

«Servì per allungare di pochi giorni un amore. La scrissi per una ragazza. Ne ero innamorato e lei mi aveva lasciato per tornare dal suo ex. Le chiesi un ultimo incontro. Fu lei a darmi appuntamento lì. Erano le quattro e mezza, calcolai che avevo più o meno due ore, e la composi per lei, sul momento. S’intitolava, con grande sforzo di originalità, “Osteria dei poeti”. Dopo averla ascoltata, lei scoppiò a piangere, servì a convincerla a tornare da me. “Staremo insieme per sempre”, promise. Mi lasciò tre giorni dopo».

 

E allora lei cominciò ad andare all’Osteria delle Dame?

«Prima ci fu l’osteria Gandolfi, che poi sarebbe diventata il Moretto, poi arrivò l’epoca gloriosa delle Dame. Aprì nel 1970, tutte le sere facevamo musica. Ma questa è un’altra storia».

 

 

Articolo di Emanuela Giampaoli tratto da La Repubblica – Edizione di Bologna