Le parole delle canzoni sono fatte di voce. Hanno la materia, il tessuto della voce – e non dell’inchiostro, della lettera. Ciò rende un cantautore profondamente diverso da un poeta. Che cosa sia la voce, poi, è difficile dirlo, se non altro perché bisognerebbe, per farlo, sbarazzarsi dell’idea che essa sia un semplice “strumento” della parola. E quando Barthes parlava, appunto, di “grana della voce”, in fondo non indicava che quel piacere – del tutto individuale, e singolare – che talvolta si prova ascoltando cantare qualcuno. Più che alla parola, la voce è imparentata alla pulsione, e a come essa lavora la lingua, le parole. Solo ascoltandolo si può capire la bellezza di quel quarantatré, che accompagna le strofe di Via Paolo Fabbri 43. E la “grana” di quella voce, il tipo di piacere, malinconico, di cui si compone, direi che ha essenzialmente la forma del ricordo, di quel ricordo di cui è fatta quel tempo della vita che è la giovinezza.
Sembra un paradosso affermare che la giovinezza è il tempo del ricordo. Ma occorre intendersi. Quando si è, infatti, giovani? Non quando lo si è: perché per chi è giovane non c’è giovinezza, ma solo il tempo in cui si vive, il quale è sempre tempo presente e che passa, e in cui si invecchia. Solo nel ricordo, nel suo essere ricordata quando è passata, la giovinezza diviene un tempo della vita: solo in quanto persa, perduta, la giovinezza può ritornare come un tempo nuovo – non come la memoria di ciò che si è stati, di ciò che si è vissuto, ma come il ricordo di un tempo incompiuto, fatto di sole possibilità, illusioni, delle speranze che abbiamo tradito, degli amori che non abbiamo vissuto, e che ora ritornano come ad un appuntamento che, allora, avevano mancato.
È questo il tempo di tante canzoni di Guccini: tempo della giovinezza perduta, e in cui però solo ora essa viene “salvata”, in cui viene riscattato, attraverso il loro ricordo, ciò che allora era possibile, ma che non è poi stato. Perché, ricordando quel «nickel di mancia», quella in autogrill con la cameriera «bionda senza averne l’aria» diviene ciò che all’epoca non fu: non è semplice memoria di un incontro mancato, ma il ricordo di una storia d’amore. È questo che rende inseparabile, nella voce di Guccini, la malinconia dalla felicità: che solo in quanto perduto, solo perché «un altro giorno è andato», il tempo può essere salvato. O, detto con un passo di Ibsen caro a Benjamin, “la felicità nasce dalla perdita”: non si è mai felici, lo si può solo esserlo stati.
Ascoltando Guccini non si ritorna ad avere vent’anni, presi da una qualche “nostalgia” per quando si era giovani; piuttosto, diventa possibile aver avuto vent’anni. Perché non basta essere stato – anagraficamente – un ventenne, per poter aver avuto vent’anni. Un ventenne non ha mai vent’anni – lo dice Paul Nizan, benissimo, quando scrive: «Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita». Un ventenne, cioè, ha solo l’età che ha, ha solo il presente della sua età, l’ora; mentre i “vent’anni” sono sempre qualcosa che esiste solo in quanto passato (solo a quarant’anni Guccini può cantare «potrai capire i miei vent’anni allora»). Per poterli avere, occorre la possibilità – che le canzoni di Guccini creano – di averli avuti, la possibilità, cioè, di ricordare come perduto qualcosa che non si è in realtà mai avuto. Del resto, per aver avuto vent’anni non è neppure necessario averli mai davvero avuti: ascoltando Guccini a quattordici, quindici anni, era come se avessimo già avuto vent’anni – li ricordavamo come se fossero già passati, sapevamo di essere stati giovani, di essere stati «stupidi davvero». La grazia di alcune sue canzoni è tutta qui: nel loro restituirci ciò che abbiamo perduto per non averlo potuto avere; restituirci, cioè, la possibilità di perderlo, finalmente, e dunque di averlo avuto.
Questo vale, naturalmente, anche per la “politica”. Una volta Dario Fo ha osservato che quella di Guccini «è la voce di quello che un tempo si diceva il “movimento”. Oggi, semplicemente, una voce di gioventù». Bisogna però intendersi. La voce di Guccini è quella della gioventù, della giovinezza in quanto ricordata: in quanto, cioè, attraverso il ricordo si trasforma da semplice fatto del passato, memoria di ciò che è accaduto, in ciò che “salva”, redime quel passato, restituendogli le possibilità che allora conteneva. In questo senso, La Locomotiva è esemplare, è davvero l’unica canzone popolare che un cantautore sia mai riuscito a scrivere. Direi per due ragioni. Anzitutto per come è scritta. Sanguineti amava ricordare quel passo dei Dialoghi di profughi di Brecht in cui si spiega quanto costi diventare materialisti storici: costa fatica, ma costa in senso letterale perché bisogna potersi permettere di pagare gli studi, di comprare i libri – di Marx, di Hegel, di Ricardo. La canzone popolare, in questo senso, non è la stessa cosa di quelle che identifichiamo con le canzoni di una certa tradizione di sinistra: perché Contessa – che pure le si avvicina – o, tanto più Canzone del maggio, non riescono del tutto a liberarsi dalla sensazione di essere “libresche”, sembrano canzoni essenzialmente studiate. La Locomotiva, quando la si ascolta, continua invece a dare l’impressione di non aver bisogno di alcuna mediazione, di essere fatta di quella «semplicità che è difficile a farsi» che Brecht chiamava comunismo.
C’è poi una seconda ragione. Ed è che Guccini, in fondo, non appartiene a quella tradizione “marxista” di tipo “progressista”, convinta cioè che la “giustizia proletaria” sia una promessa di felicità, sia cioè qualcosa che riguardi il futuro: ciò che stiamo costruendo per i nostri figli, i nostri nipoti. La giustizia di cui parla La Locomotiva è la vendetta delle ingiustizie passate, per dirla con Benjamin. Salvare dall’oblio i vinti, restituire loro ciò che gli è stato tolto: così, da vinto, il «macchinista ferroviere» diviene uno degli eroi «giovani e belli» della storia. Guccini, in questo, aveva ragione di marcare la sua differenza da un cantautore di tradizione «borghese» come de André – il quale non riesce a raccontare la storia di un impiegato se non attraverso il linguaggio, gli intellettualismi, la ricercatezza della borghesia (fino all’improbabile idea che l’impiegato possa avere in casa un «Guttuso ancora da autenticare»). Ma ciò che è autenticamente “popolare”, nelle sue canzoni è, come si diceva, l’idea che sia il passato più che il futuro, i nostri nonni più che i nostri nipoti, ad aver diritto alla giustizia che non hanno avuto. Questa giustizia, che attraversa la poetica di Guccini, non è allora altra dalla salvezza del passato di cui abbiamo parlato.
Non è mai questione di nostalgia, o di rimpianto – «Non passo notti disperate su quel che ho fatto o quel che ho avuto / Le cose andate sono andate». Aggiunge Guccini: «ed ho per unico rimorso le occasioni che ho perduto». Non dunque rimpiangere ciò che è stato, che è passato; ma “salvare” le occasioni, le possibilità che allora si sono perse, che non si sono realizzate. Ma cosa significa “salvarle”? Significa trasformarle, attraverso il ricordo, in una nuova esperienza di esse. Si prenda, ad esempio, una canzone come Il vecchio e il bambino, che non riesce mai a essere cupa, tetra come ciò che contorna le «torri di fumo» che si vedono all’orizzonte. Ché se il vecchio racconta ciò che è stato, ed in ciò che è stato c’è il disastro nucleare, la terra devastata, al contempo finisce per trasformare la sua memoria in «fiaba». È grazie al bambino che ascolta che il racconto del vecchio è “salvato”. Perché da «vero», da semplice memoria di come la terra era una volta, diviene qualcosa che rende possibile al bambino di sognare il futuro: ciò che il vecchio gli dona, ora, non è il racconto di ciò che una volta era la terra, ma la capacità di immaginare una terra diversa da come il bambino la vede.
Ogni giorno passa, un altro giorno è andato e anche «il domani come tutto se ne andrà»: anche il domani, il futuro è, a rigore, passato, non è un altro tempo rispetto ad esso – perché, per Guccini, è qualcosa che non potrà esistere che come passato. Quando, infatti, il domani sarà, sarà oggi, sarà a quel punto già passato (non sarà più domani). Le cose sono il loro esser state. Per questo è il ricordo che dona loro la possibilità di essere ciò che sono. Solo ricordandolo, il “domani” diventa ciò che davvero era ed è: perché il “domani” non è domani, ma è ieri, è il “domani” che era allora, il domani, appunto, in quanto ricordato. Ma in quanto ricordato è salvato come “domani”: ritorna, infatti, come il futuro che esso allora era stato.
Ovviamente il ricordo non ha nulla a che fare con la memoria, con quella che Proust chiamava memoria volontaria – e questo spiega anche la ragione per cui Guccini ha sempre dichiarato che le canzoni non si possono scrivere solo perché lo si vuole, o lo si deve fare (per impegni contrattuali). Memoria senza volontà, il ricordo restituisce un passato diverso da quello che credevamo di ricordare. Ciò di cui ho memoria, infatti, è sempre e soltanto il presente – il passato, cioè, che, in quanto posso in ogni momento richiamarlo a mente, non è affatto passato. Questa differenza tra memoria e ricordo, è la differenza tra il vecchio e il bambino, tra le parole del vecchio che hanno presente il passato che è stato, parlando del mondo che era, e le parole che il bambino ascolta, in cui il passato si fa presente, cessando di essere la memoria di qualcosa che è stato, per trasfigurarsi nel mondo che potrebbe ancora essere.
Articolo tratto dal sito Esquire.com