Stagioni
IL DISCO
Registrato e mixato presso Studio Fonoprint di Bologna da Ezio De Rosa e Roberto Barillari con l'assistenza di Stefano Marchioni nell'autunno 1999, Stagioni è il diciannovesimo album di Francesco Guccini.
Pubblicato nel 2000 dalla EMI, l’album è stato prodotto da Renzo Fantini.
Con Francesco Guccini alla voce, hanno suonato nel disco: Ellade Bandini (batteria), Juan Carlos «Flaco» Biondini (chitarre e voce in Don Chisciotte), Henghel Gualdi (clarinetto in Inverno '60), Roberto Manuzzi (sax, fisarmonica e tastiere), Antonio Marangolo (sax e percussioni), Ares Tavolazzi (contrabbasso e basso), Vince Tempera (pianoforte e tastiere), Marco «Jimmy» Villotti (chitarra in Inverno '60).
Archi arrangiati e diretti da Vince Tempera. «Crunch Orchestra»: archi in Don Chisciotte. Valentino Corvino: primo violino.
L'edizione in vinile è stata tirata in 1.000 esemplari numerati.
L'album è stato distribuito in formato LP (in edizione limitata – tiratura 1.000 esemplari numerati), MC e CD.
Gli spartiti di Stagioni sono stati pubblicati da Carisch.
CURIOSITA'
La foto di copertina è di Daniela Zedda, mentre la grafica è stata curata da Giuseppe Spada.
La canzone Stagioni parla di Ernesto "Che" Guevara. Lo stesso Guccini in un’intervista rilasciata a Mario Luzzatto Fegiz per il Corriere della Sera il 3 febbraio del 2000 ne racconta la genesi:
"Cercai di scrivere una canzone sul “Che nel 1968”. Ma mi fermai a metà strofa. Incompiuta. Durante uno dei miei concerti settimanali feci ascoltare ai ragazzi che indossavano le magliette del rivoluzionario quei versi monchi. Li vidi eccitarsi. Così l'ho finita".
Stagioni viene anche cantata nel film indiano Un'altra volta nella foresta (Abar Aranye, 2003) del regista Goutam Ghose.
RECENSIONI
Da “Tv Sorrisi e Canzoni” del 21 Maggio 2000:
D'autunno e d'inverno gira l'Italia e i palazzetti dello sport lo accolgono colmi fino agli ultimi spalti. Poi in primavera spunta le ultime date e quando arriva l'estate si ritira a Pàvana, sull'Appennino Tosco-Emiliano: lui, montanaro, in mezzo a quei «saggi di montagna», ignoranti ma capaci di recitare Dante a memoria. E così, fra una stagione e l'altra che passa brizzolandolo, Francesco Guccini accorda un album di canzoni senza tempo. «Stagioni», lo chiama, a indicare questo tempo che va e che resta. Dice: «Ho 60 anni», fingendo un tono rassegnato che si fa indignazione e il canto gli sgorga dal petto con lo stesso fiato arrabbiato di sempre: «lo dico addio a tutte le vostre cazzate infinite... a chi non sceglie, non prende parte... chi si dichiara di sinistra e democratico però è amico di tutti". Con la sua voce inconfondibile, la sua erre arrotata, nei giri di chitarra resuscita miti e illusioni che non conoscono sepolcri: Che Guevara, la giovinezza, la lotta donchisciottesca contro l'ingiustizia, «la forza di incazzarsi ancora con la coscienza offesa». La stessa forza con cui il suo disco espugna da mesi la classifica.
I tuoi concerti sono pieni di ragazzi che non erano nemmeno nati quando cantavi «Eskimo» e «Auschwitz».
«Cantare solo per i reduci sarebbe triste, avrei già Smesso. Se una canzone di 30 anni fa funziona anche adesso, contiene una cosa misteriosa che non so spiegare. O forse è solo l'affetto che il pubblico ha per me, una persona che è sempre se stessa al di là dei clamori del divo e della Tv».
Eppure tante volte la tua coerenza è stata tacciata come un difetto.
«Non è che faccia fatica o sia una cosa studiata: sono fatto così e vado avanti come sono fatto; sono di una generazione anteriore, gente del '40, cresciuti in un clima, in un modo di essere, di pensarci diverso».
Uno dei pochi che continua a dire «qualcosa di sinistra».
«La canzone d'autore non l'abbiamo inventata noi di sinistra: è molto vecchia, si è affermata negli Anni 60/70 come una musica che diceva delle cose, non necessariamente politiche. Adesso pare che molti colleghi siano spaventati: hanno cambiato strada, binario».
Questi ragazzi che arrivano ai concerti inneggiando a Che Guevara lo sanno chi era? Cosa gli rappresenta?
«Che Guevara è diventato una figura mitica; se posso fare un paragone che può sembrare irriverente, e non lo è, è come Marilyn Monroe: figure che s'impongono all'immaginario collettivo. "Stagioni" non è tanto una canzone sul Che, quanto su di noi che abbiamo vissuto gli anni dalla morte di Guevara a oggi, con passaggi di stagioni e di tempo».
Da una parte dici: «Il Che ritornerà»; da un'altra canti: «Di eroi e altri cavalieri non abbiamo più notizia». Prevale l'illusione o la sfiducia?
«Il Che ritornerà perché è l'idea dell'avventura, della libertà, del bel gesto: in un mondo in cui i liberisti sono anche troppi, l'idea libertaria del Che affascina i giovani e li vede con le magliette e le bandiere».
Questi giovani con le magliette e le bandiere sono quelli che votano a sinistra?
«Questo non lo so; c'è una frase famosa che dice: "Si nasce incendiari e si muore pompieri". Molti sì, forse. Alcuni mi chiedono: ma se il ferroviere di "La locomotiva" fosse vivo, contro chi si scaglierebbe oggi? Una domanda curiosa: anch'io talvolta me la faccio ...» .
E che risposta ti dai?
«Non saprei. Forse non lo farebbe: ognuno è figlio del proprio tempo e la canzone dell'anarchico bolognese nasce come fatto di quel periodo, dove c'era un dislivello di classe enorme. Sono diversi i parametri attuali, non puoi fare un discorso di fine Ottocento e rapportarlo ai giorni nostri».
Una volta cantavi "Il tempo prende e il tempo dà". Il tempo ha più preso o più dato nella tua vita?
«Tutt'e due. Si arriva a 60 anni e ci si accorge di avere qualcosa alle spalle, nel bene e nel male, col rimpianto di non poter ricominciare; c'è il sogno di Faust, forse, in ciascuno di noi: tornare indietro, ricominciare, oppure tener salve le posizioni acquisite e avere in qualche modo la barba più scura».
Il futuro come l'immagini?
«Il futuro non l'immagino, non esiste; esiste il presente che diventa passato appena è passato, esiste il passato che si può esaminare per capire quello che siamo stati e che siamo oggi; il futuro è minuto per minuto, una cosa che avanza».
In «Addio» dici: «Un ruggito diventa un belato». Il leone si è trasformato in agnello?
«Le canzoni servono a quel che servono, non è che abbiano una potenza tale».
E le tue canzoni a cosa sono servite in questi 25 anni?
«Forse a ricordare qualcosa, a esprimere qualcosa, a volte a creare un amore».
Ti senti una persona libera?
«Relativamente parlando; ognuno non è mai liberissimo, ha sempre dei legami»,
Libero di scegliere?
«Sì, libero di scegliere sì».
Da “Il Manifesto” del 21 Maggio 2000:
L'urgenza di scrivere si dissolve, resta solo la voglia, forse una necessità. Sono così i sentimenti e il fluire del tempo il motore di Stagioni (Emi), il nuovo e appassionato lavoro di Francesco Guccini, presentato ieri sera a Milano davanti a una bottiglia di vino e in distribuzione da domani 4 febbraio. Sono le tre stagioni di Guccini, perché l'estate è stata messa da parte: «Manca l'estate perché non sono riuscito a comporre una canzone appropriata - ha spiegato il cantautore - del resto è un periodo talmente bello che si sta bene, e dirlo in musica, secondo me, non frega niente a nessuno».
Tra ironia, battute e citazioni colte, le nove tracce dell'album mostrano un approccio compositivo più svincolato da arrabbiature così pure dai toni bitter di “D'amore, di morte e di altre sciocchezze” ('96): c'è molta indignazione, meno amarezza ma forse più stanchezza. Le tre epoche gucciniane osservano da fuori ciò che in realtà si nasconde dentro: un panorama sul mondo in cambio di un viaggio interiore. “Primavera '59”, “Autunno”, “Inverno '60” traducono le fasi della vita, con l'occhio di chi oggi può guardare tutto dall'alto: una storia fugace tra adolescenti; la consapevolezza che la giovinezza è passata; l'affresco di una serata in balera, carica di sogni e aspettative, per dimenticare le noie e le solitudini. E proprio “Inverno '60”, una canzone con la cinepresa sulle spalle, è amaramente ironica sui «tempi di Modena, che non ricordo con gioia perché erano anni di fame» ha precisato Guccini. «Ho vissuto le balere come danzerino e come cantante - ha aggiunto -bello magro nelle mie giacche di lamé, come usavano nel '60. Ricordo che era difficile, allora, essere alto 1 metro e 94: subivo l'umiliazione di non poter ballare con le ragazze che volevo. Mi davano un'occhiata da capo a piedi e mi dicevano: No!». Così, con l'umore del gatto soriano che guarda un po' malinconico ciò che gli gira intorno, si avverte un Guccini che ha preso le distanze: senza corrodere, è, il suo, un punto di osservazione che non nasconde sdegno e dissociazione da ciò che non piace, da quanto è ritenuto inutile e falso; dall'ipocrisia dei tempi moderni molto più tesi a privilegiare l'apparenza sulla sostanza. Manifesto di tutta la raccolta è non a caso, un pezzo che si chiama “Addio”, ultimo ad essere composto, quasi a chiosa di un percorso iniziato con uno stato d'animo meno definitivo. Si sbatte la porta contro certi ambienti, specialmente quello dello spettacolo e della musica: lontani i tempi «avvelenati» e le preveggenti denunce alle ipocrisie, l'«eterno studente» cresciuto a «castagne e erba Spagna» saluta con soddisfazione il peggio del villaggio globale, le orde di ignoranti squittenti in tv e chi insegue diete ossessive alla faccia di chi non mette insieme il pranzo con la cena. Citazioni da Baudelaire, Francois Villon e Socrate arricchiscono il brano di divertissement. In questo senso ogni brano pungola con l'animo di chi la sua parte l'ha fatta e non riesce a tacere; tuttavia sembra non darsi troppa pena se c'è chi non afferra il messaggio. Parola del «figlio di un impiegato e di una casalinga». La vis ribelle emerge invece in “Stagioni”, dedicato ad Ernesto Guevara ma secondo la formula del flashback: «Il giorno in cui morì il Che mi vennero di getto alcuni versi, non andai più avanti e li misi in un cassetto». Sorte ha voluto che nel corso di un recente concerto, Guccini le ritirasse fuori: a furor di popolo fu costretto a proseguire. Delle bombe proletarie è rimasto così il ricordo, anche se resta vivo l'ammonimento, forte delle emozioni del '77, l'anno di “Auschwitz”: «Ma voi reazionari tremate, non sono finite le rivoluzioni e voi a decine che usate parole diverse e le stesse prigioni; da qualche parte un giorno dove non si saprà dove non l'aspettate il Che ritornerà». «Volevo solo dire che sono quello che ero – ha detto il cantautore di Pavana, 60 anni tra pochi mesi - anche se il tempo ti cambia». Un pezzo è di Ligabue, “Ho ancora la forza”: gli accordi sono quelli tipici del cantautore di Correggio, «ci accomuna la comunanza di radici». “E un giorno” è pensata per “Culodritto”, oggi 21enne a metà tra aspirazioni di fuga e attaccamento alle radici. Infine, un duetto con Flaco Biondini introduce “Don Chisciotte, nata da una costola di “Cirano”. Musicalmente, “Stagioni”, prodotto da Renzo Fantini, è un disco ineccepibile, realizzato, come dice lui, «con gli amici di sempre», ovvero alcuni tra i musicisti più quotati: Tavolazzi, Tempera, Bandini, Marangolo, Biondini e Mannuzzi.
Da “Il Mucchio” del 27 marzo 2000:
Se dovessi trovare un aggettivo capace di fotografare Guccini, sceglierei coerente. Una persona splendidamente fedele a se stessa a partire dal look, con quella barba che si porta dietro dal '70. Un uomo attaccato alle sue radici, innamorato delle storie, della loro valenza evocativa. Un fenomenale "burattinaio di parole" che non ha la minima voglia di arrendersi, che sa incazzarsi ancora. Ho avuto la fortuna di conoscere i migliori cantautori italiani e, tutte le volte, sono rimasto abbagliato dalla loro incredibile umanità. Appena te li trovi davanti, percepisci subito che sono belli dentro. De Andrè non ha voluto incontrare personalmente il suo mito, Brassens, per paura di rimanere deluso. A me con Francesco, è successo il contrario.
Mi sembra che, in “Stagioni”, l'attenzione per il passato sia perfino maggiore rispetto ai lavori precedenti.
Beh, gli anni passano... È un disco nato come i precedenti. Prima scrivo una canzone, poi un'altra, poi un'altra ancora. Alla fine, si costituisce un gruppo che, in qualche modo, è legato da alcuni temi comuni. Non è che io, in fase di stesura, voglia dare a tutto un senso comune. Semplicemente, succede. L’ultima cosa che nasce è il titolo, 'imposto' dalle canzoni scritte. In molti brani passati avevo dato grande risalto al tempo, inteso sia in senso atmosferico, che cronologico. Arrivato a registrare il nuovo disco, ho visto che il tempo era il protagonista principale, ed ho scelto come titolo Stagioni.
L’unica stagione che non canti è l'estate.
Ho provato a scrivere una canzone durante la scorsa estate, ma non è nato niente. D'estate divento ancora più pigro, vado nel mio paese di campagna e tutto voglio fare, fuorché scrivere. Ed io, le canzoni per forza non le ho mai scritte.
Mi pare che questa assenza dia al disco un'atmosfera ancor più triste, quasi crepuscolare. Il brano “Autunno” è emblematico.
L’estate è il tempo della spensieratezza, della dimenticanza. Forse, in questo senso, hai ragione: “Stagioni” è un disco poco spensierato. Tristezza? C'è sempre stata, in ogni mio disco. Però, attento: non è mai resa. Può essere amarezza, delusione, sdegno, ma non rinuncia. Il crepuscolarismo c'è in “Autunno”, ma non c'è assolutamente in “Addio”, che è una risposta a secco, decisa, chiara, anche violenta se vuoi.
A chi è rivolto il tuo Addio?
Principalmente, a questo mondo amplificato dalla televisione, abitato da personaggi squallidi che non hanno nulla da dire, che sono brutti, e che godono dell' attenzione spropositata di tutti i media.
C'è anche un attacco chiarissimo ad alcuni ex 'colleghi'...
Sì, senza dubbio. Ci sono molti ex colleghi che hanno abbandonato la strada della canzone d'autore. La canzone d'autore dovrebbe non dico far meditare, ma comunque suscitare una minima riflessione. Invece, vedo un imbarazzante ritorno alla canzonetta per la canzonetta. Per carità: la canzonetta deve esistere. È solo che non mi aspettavo che certi colleghi si riducessero a cantarle.
L’Italia ha dato vita a cantautori di primissimo livello, che nulla hanno da invidiare a quelli francesi o brasiliani. Però, alla fine, in pochi sono riusciti ad invecchiare bene. Tolti De Andrè, tu, Gaber, Conte (che fa storia a sé), Fossati e uomini coerenti fino alla morte come Tenco, Pagani e Ciampi, si sono sputtanati tutti ...
È proprio per questo che ho scritto Addio. Forse questi ex colleghi hanno avuto paura di dire cose diverse, forse hanno perso la vena, o forse ancora sono 'terrorizzati dall'idea di perdere il loro pubblico. La canzone d'autore ha ancora una forza incredibile, potenzialmente. Lo vedo dai miei concerti, che sono sempre pienissimi (Stagioni è subito balzato al primo posto delle classifiche di vendite in Italia, NdA). Io non canto per reduci: ho un pubblico eterogeneo, vitale. Avere un pubblico composto anche da persone che non erano neanche nate quando scrivevo certi pezzi - gli stessi pezzi, come “La locomotiva” e “L'avvelenata”, che oggi sono 'costretto' a cantare per non deludere le aspettative – è uno stimolo a non fermarmi, ad essere il più possibile coerente. Evidentemente, altri colleghi non sono come me.
So che non ti piace fare i nomi, ma chi sono questi colleghi 'traditori'?
Fare i nomi è imbarazzante e, in questo caso, inutile. Li hai già fatti tu. A 'salvarsi' son sempre quei quattro o cinque. Il resto... lasciamo perdere.
Nel brano che dà il titolo al disco, recuperi una figura mitica di ribellione: Che Guevara.
È una canzone nata nel 1967, poco dopo la morte del Che. Avevo scritto una piccola strofa, che poi era rimasta lì. Tempo fa, in casa di amici, ho riproposto quelle poche parole vecchie di trent'anni, assieme ad altre canzoni mai incise. Sono piaciute molto. Quasi per gioco, ho fatto la stessa cosa durante un concerto. Come sai, io interrompo spesso i brani per parlare con il pubblico. Avevo visto un gruppo di ragazzi con la maglia del Che, e così ho pensato di dedicargli quella strofa: è venuto giù il Palasport. Tutti mi hanno detto che non sarebbe stato male finire la canzone. È stata dura: sono dovuto tornare indietro con un lungo flash-back, creando un parallelo tra quella generazione e questa.
Nonostante la tua abilità compositiva, però, il rischio di cadere nel retorico è sempre dietro l'angolo. Perché credi che abbia senso parlare ancora del Che? non si sfiora il demagogico?
Oddio, il rischio c'è. Ho appena ammesso, candidamente, che ho deciso di terminare la canzone spinto dal pubblico... Sì, è un'operazione che può anche essere vista come retorica. Non credo sia una canzone 'ripetitiva': l'unica canzone già esistente sul Che, finora, era quella cubana (da notare come Guccini, giustamente, non consideri minimamente le canzoni su Guevara di Silvestri e della Bertè, N1dA). Io ho scritto questa canzone perché sentivo il forte bisogno, in un momento in cui la sinistra è contestata e - soprattutto - contrastata, di riaffermare il mio credo. In un momento in cui tutti o quasi si proclamano di centro-destra, io, che di centro-destra proprio non sono, ho voluto ridire: lo sono di sinistra, non sono un reazionario, non mi sono arreso. Devo però ammettere che, se non fossi stato spinto, non avrei mai concluso “Stagioni”.
Quanto e come è cambiata la sinistra, in questi decenni?
Dal mio punto di vista, credo che la sinistra sia cambiata in meglio. La sinistra ha giustamente abbandonato alcuni atteggiamenti anacronistici, ha smesso di dire sempre 'no', si è assunta le sue responsabilità. Non sono mai stato un uomo troppo di sinistra: me lo impone la mia indole montanara, la mia educazione. Essere al governo è quanto meno imbarazzante, perché hai tutto da perdere e nulla da guadagnare. Di sicuro, dire sempre di 'no' è molto più facile che provare a dire, almeno ogni tanto, sì.
Avrei giurato che eri uno dei tanti delusi dall' esperienza della sinistra al governo.
Non si può avere tutto e subito: sempre meglio avere una sinistra un po' annacquata che questa destra, pericolosissima. Un difetto della sinistra al governo? L'ambiguità. In alcuni momenti, come al tempo dell'inciucio, mi sembrava di essere tornato ai giochini di potere democristiani. Adesso, sulla par condicio, mi sembrano più decisi, più duri. Speriamo continuino: questa storia delle tre reti televisive a Berlusconi è di una vergogna inaudita.
E la tua Bologna, quanto è cambiata rispetto ai bei tempi delle Osterie?
Oh, è cambiata tantissimo, e in peggio. Sarà che gli anni passano e i vecchi si lamentano sempre, ma non c'è più quell'atmosfera che la rendeva unica. Quando insegnavo negli Stati Uniti, amavo dire alle mie alunne che, a Bologna, avrebbero potuto camminare da sole anche alle tre di notte. Oggi non gliela direi mai. Come tutte le città divenute metropoli, è vittima di un'involuzione letale. La Bologna delle Osterie è - ahimè - solo un ricordo. Per questo, sto pensando sempre più spesso di andarmene.
Per fortuna, il buen retiro di Pàvana c'è sempre...
Sì, quello è un nido che mi è rimasto. E cambiata anche Pàvana, certo, ma è ancora un luogo bellissimo, a cui sono profondamente legato.
Negli ultimi anni, hai dedicato commossi ricordi ad amici che non ci sono più. In “Lettera”, brano d'apertura di “D'amore di morte e di altre sciocchezze”, alludi a Bonvi e Victor Sogliani.
Purtroppo, arrivi ad una età in cui sono più i funerali che i matrimoni, e non è facile. Pensa che, proprio quando stavo tornando da un bel matrimonio di un amico, mi è arrivata la notizia della morte di Bonvi. Ho perso tanti amici: Victor, Daolio, Bonvi, De Andrè... Eh sì, si comincia a diradare. C'è il tempo dei matrimoni, il tempo in cui i genitori se ne vanno, e poi arrivi al punto in cui ti senti non dico sopravvissuto, ma quasi.
Che ricordo hai di De Andrè?
Eravamo amici. Artisticamente, lo stimavo enormemente. Eravamo entrambi del '40. Negli anni '60, venne a Bologna ed espresse il desiderio di conoscermi, cosa che mi fece molto piacere. Ci siamo trovati in una casa di amici, su in collina, ed abbiamo suonato assieme. Ricordo che suonò con le luci spente, perché si vergognava. Lui ha inizia ro a fare concerti prima di me (De Andrè intraprese il primo tour ufficiale nel 1975, spinto 'a calci in culo' sul palco dall'amico regista Marco Ferreri: fino al tour di Crêuza de mä del 1984, per superare la timidezza, si ubriacava prima dei concerti, NdA). Io sono partito con i live a fine '70. All'inizio, era una cosa che rifiutavo. Oggi, considerando la possibilità di poter masterizzare tutto, credo che il concerto sia l'unica cosa veramente 'tua', personale ed irripetibile. Avevamo ottimi rapporti ed una reciproca, grande stima l'uno dell'altro.
Eppure, in “Via Paolo Fabbri 43”, non risparmiasti una frecciata alla sua Marinella. In quel brano, tra l'altro, 'bacchettavi' anche Alice di De Gregori e "la piccola infelice" (Lilly) di Venditti.
Sì, ma quella su Fabrizio era una battuta amabile, e lui lo sapeva. Nulla di serio. Sulle altre due frecciatine, la cattiveria era, come dire, molto più sentita...
Mi sembra che tra te e Ligabue si stia creando un legame molto forte. In “Stagioni”, avete scritto un brano insieme, “Ho ancora la forza”.
Siamo molto diversi, non solo per questioni anagrafiche. Luciano è molto più 'rockero' di me. Quando ci vediamo, lui mi fa ascoltare una musica strana che a me non piace, ed io gli propongo dei ritmi latino-americani che a me fanno impazzire, ma che lui proprio non sopporta.
Un bel feeling ...
Ah ah ah! Sì, niente male davvero. A parte questo, però, abbiamo in comune una cosa molto importante: l'attaccamento alle proprie radici. Entrambi non abbiamo abbandonato il paese di origine, entrambi siamo rimasti legati agli amici di sempre, entrambi scriviamo canzoni improponibili per pochi intimi (una prova di questa produzione parodistica di Guccini è “Opera buffa”, mentre Liga è solito dar vita, nel paese natale, a "Feste del tormento e della sofferenza" nel corso delle quali nascono canzoni umoristiche come “Giorgio Bubba sta con noi”, divenuta poi “Marlon Brando è sempre lui”, NdA). Recentemente, ci siamo trovati nella sua Correggio - zona che conosco benissimo, mia madre è di Carpi - ed abbiamo concluso la serata cenando tutti insieme, con persone che avevano conosciuto Luciano ben prima che divenisse famoso. Questo ci rende molto simili. È una bella persona, davvero.
Lui dice che vorrebbe fare un disco con te, ma sei troppo pigro.
È verissimo. Anche quando incido i dischi, al terzo giorno sono già scazzato. Prima ero più entusiasta. Luciano è molto diverso: suonerebbe sempre. Lui mi rimprovera per questa pigrizia, mi dice che "non smetterebbe mai di fare musica". Io lo capisco, ma gli rispondo: "Da quanto è che suoni, Luciano? Te lo dico io: da quasi trent'anni meno di me. Anch'io alla tua età ero come te, ma con gli anni ti impigrisci per forzi'. Oltretutto, lo ammetto, sono uno che ci tende di suo, ad impigrirsi. Alla EMI lo sanno, e infatti non mi pressano mai.
A proposito di EMI: come ci sei rimasto, quando nel doppio Live Collection hanno scritto “Un altro giorno è andato” con l'apostrofo? Per un linguista come te, che si è pure permesso di ricordare ad Eco che "amare/Schopenhauer" non era una rima ma un' assonanza, deve essere stato un colpo basso ...
Sì, ma con la EMI ci sono abituato. Ne han fatte di peggio. La prima edizione di “D'amore di morte e altre sciocchezze” è uscita senza i crediti: forte, eh? Sembrava che quel disco non l'avesse suonato nessuno. Un'altra volta hanno scritto, al posto di Antonio Marangolo (sassofonista), Agostino Marangolo, che è il fratello batterista ...
Anche nelle note stampa di “Stagioni”, “Culodritto”, di “Signora Bovary” è diventata "Culobasso”...
No, questa mica la sapevo! Culobasso non è male: chissà quanto sarà contenta Teresa!!! Adesso stiamo molto attenti alla stampa dei testi, proprio per evitare ulteriori sciocchezze.
Hai parlato di Teresa, tua figlia, a cui era dedicata “Culodritto”. In “E un giorno..., uno dei migliori brani di “Stagioni”, torni a parlare di lei.
Sì. Adesso ha 21 anni e vive a metà strada tra l'adolescenza e la maturità. Un'età difficile. Ci si sente soli, spaesati, incompresi. Tutti mi dicono che “E un giorno...” è un brano commovente. Mi fa piacere.
Il disco a cui sei più legato e quello che non rifaresti.
Si è sempre soddisfatti dell'ultimo, ma se devo ripensare al passato, dico “Radici”, il primo disco che registrai come volevo io e “Signora Bovary”. Quale non rifarei? “Stanze di vita quotidiana”, anche se ha il suo seguito. Lo incisi in situazioni psicologiche difficili. Avevo un produttore, Pier Farri, che mi sballottava da Roma a Milano senza il minimo motivo. Fu terribile.
Era il periodo in cui Farri girava con Mandrake, un percussionista brasiliano in libertà vigilata e con le unghie smaltate.
Appunto. Al tempo, Pier era fissato con l'esotismo, le marimbe. Ares Tavolazzi, il bassista, se ne andò quando Pier gli chiese di eseguire "un suono giallo" ... cazzo voleva dire?
Se non sbaglio, fu proprio in quel periodo che, in sala di registrazione, spuntò un fantomatico Guru...
Oh mamma mia, è vero! Lì però non era colpa di Farri, ma della violinista di Alan Sorrenti, Tony Marcus. Andò a prenderlo all'aeroporto, quello sciagurato, e lo portò in sala di registrazione. Aveva due tabla, ed era praticamente nudo. Se ci fai caso, in “Canzone delle osterie di fuori porta” ci sono i tabla (e non ci dicono un cazzo ... Non a caso, Guccini ha subito provveduto, dal vivo, a dargli un arrangiamento meno folle, NdA). A suonarli, era l'indiano Kash Shari, il 'Guru'. Mentre incidevo, non sapevo se ridere o piangere. E poi, non si finiva mai di registrare, come in “Metropolis”... una noia mortale. Ora però basta con gli aneddoti su quel periodo. Hai già infierito abbastanza.
Okay. Non hai mai amato gli studi di registrazione.
No, e in questo sono sempre meno tollerante. Per “Stagioni” ho registrato tutto in meno di un mese, compresi i missaggi. Di questi tempi, è quasi un miracolo.
Però, scusa se torno su Stanze, ma senza quel disco, e senza la recensione molto caustica di Bertoncelli, non sarebbe nata “L'avvelenata”. Quindi, si può dire che anche “Stanze di vita quotidiana” andava fatto ...
Ah, ah, ah! In effetti, non avevo mai visto la cosa in questi termini, ma il ragionamento non fa una piega.
Che rapporto hai, oggi, con Riccardo?
Eh, ci vediamo spessissimo. Nacque subito un ottimo rapporto. Non appena uscì “Via Paolo Fabbri 43” venne a trovarmi, e ci conoscemmo.
In “Addio”, ti definisci "non artista, solo piccolo Baccelliere”. Altre volte, hai parlato di te come "burattinaio di parole", "contastorie" (e non cantastorie: la differenza è sostanziale), "vecchio giullare". Hai sempre rifiutato lo 'status' di Poeta o Artista: cos'è, modestia? umiltà? auto ironia?
Io ho una concezione dell' artista un po' particolare, non necessariamente positiva, da montanaro diffidente. E poi: le mie sono canzoni, non poesie. È proprio una cosa diversa a livello tecnico, capisci? La distinzione è tecnica, non qualitativa. Non dico che la poesia è di serie A e la canzone di serie B. Dico che sono cose diverse. Casomai, esistono poesie di serie A, e poesie di serie B (la stessa cosa che diceva De Andrè, NdA). La canzone ha il supporto della musica, sfrutta l'esperienza dal vivo: sono mondi distinti. Io scrivo canzoni di buon livello, almeno spero (e credo), ma non scrivo poesie. Tutto qui.
Continui a dare molta più importanza ai testi che alle musiche.
Indubbiamente sì: è la cosa che so fare.
Però, e questa è una differenza che mi ha sempre colpito, Fabrizio De Andrè sopperiva a quella che lui stesso chiamava "balbuzie musicale" facendosi accompagnare da collaboratori di grande talento, al punto che Crêuza de mä è ritenuto uno dei lavori più innovativi a livello musicale degli ultimi anni. Segno che, se vogliono, i cantautori possono far convivere testi e musiche. Tu, al contrario, non hai mai dato grande importanza agli arrangiamenti, e ancor oggi ti fai accompagnare dagli stessi musicisti che avevi all'inizio.
È un' altra mia caratteristica: sono un tradizionalista. Tieni però presente che, così come sono cresciuto io, sono cresciuti anche i musicisti che ho intorno. C'è stata una evoluzione evidente, nella mia produzione. Prima, il disco era usato dai musicisti per farsi pubblicità. Ognuno si ritagliava il suo assolo e faceva vedere al mondo quanto era bravo. Oggi non è più così: si lavora per il 'bene' del pezzo, ci si intende subito, c'è grande affiatamento. Ammetto di non essere un innovatore, ma anch'io, con i miei amici musicisti, ho fatto la mia piccola evoluzione.
Nella stesura dei testi, una delle figure retoriche a cui sei più legato è l'anafora.
È vero, la uso molto spesso. Fa parte del mio modo di comporre, mi viene naturale. Torno a quanto detto sulle tematiche dei miei dischi, o sulla scelta del titolo: non è che, quando inizio una canzone, dico a me stesso: "Adesso scrivo un brano pieno di anafore". Semplicemente, succede così. Uso molto le assonanze, l'allitterazione, le rime al mezzo. Le uso per istinto, le sento mie.
Tra i cantautori, sei quello che usa più di tutti - e meglio - l'Io narrante, la prima persona. Segno di un necessario autobiografismo per parlare del mondo, 'alla Moretti', o semplice predilezione linguistica?
Racconto quasi sempre me stesso ma, come ho scritto anche in “Vacca d'un cane” citando Borges, "Si è sempre autobiografici". Cambiano solo i modi. Si può dire "Io sono nato il giorno tale nel posto tale", oppure "C'era un vecchio re che aveva tre figli", ma si è sempre autobiografici. Chi scrive, parte sempre da se stesso, da qualcosa che ha dentro. Cambiano solo le modalità tecniche. In questo senso, è vero, prediligo la prima persona.
Quali sono gli autori che ti hanno influenzato maggiormente?
No, no, questa è una domanda che richiederebbe una risposta lunghissima, non puoi farmela. Ti posso però citare la metafora del maiale. Una volta ammazzato, puoi scegliere la parte che più ti piace, ma se non avrai dato al maiale delle cose buone da mangiare, la carne che assaggerai non sarà buona. Può sembrare fuori luogo, ma per uno che scrive è lo stesso: prima di poter dire qualcosa di tuo, devi riempire te stesso di tante, tantissime letture (la stessa cosa vale per la musica, per il cinema e per qualsiasi forma d'arte). Solo allora, porrai 'ammazzare il maiale' e provare a dire qualcosa di veramente tuo. Leggo di tutto, e tantissimo. Anche i fumetti.
In passato, hai pure scritto alcune sceneggiature per fumetti, compresa quella dedicata al brigante Bobini detto Gnicche, l'eroe 'maledetto' aretino. In “Via Paolo Fabbri 43”, citi Snoopy in mezzo a Barthes e Borges. Leggi ancora fumetti?
Si, ma solo la Bonelli. Oggi, il fumetto italiano è in calo. Cosa compro? Martin Mystère, Julia, Napoleone...
Anche Magico Vento, di cui si occupa il tuo ex collega Gianfranco Manfredi?
Si, non è male.
Mi parli della tua attività di romanziere? Perché, dopo “Cròniche Epafaniche” e “Vacca d'un cane”, hai cambiato genere e sei passato al giallo, co-scritto con il padre del Commissario Sarti, Loriano Macchiavelli?
A me piace scrivere, da sempre. Non sono un giallista: mi manca la trama, il senso del plot. E’ nato tutto per caso. Dopo “Vacca d'un cane”, ho proposto un'idea di giallo a Macchiavelli, che però si è visto rifiutare il progetto. Alla presentazione di un altro libro di Loriano, un editor ci ha consigliato di provare a scrivere un libro insieme. È quello che abbiamo fatto. Adesso stiamo scrivendo il terzo episodio, che vede sempre protagonista il Maresciallo Benedetto Santovito. Sarà l'ultimo 'capitolo' della serie, a parte una raccolta di racconti che farà storia a sé. Il primo si svolge nei '40, il secondo nei '60 e questo nei '70. Poi, lo mandiamo in pensione. A quel punto, o inventeremo un nuovo personaggio, o finiremo la collaborazione. Comunque, nei miei cassetti c'è, in fieri, il libro che seguirà “Vacca d'un cane”.
Il mio direttore sostiene che sei bravo ma che, per colpa tua, i cantanti si sono messi a scrivere libri ...
Ah, ah, ah!!! Questa non è male. Oddio, il fenomeno dei cantanti-scrittori fa un po' di tristezza, ma ti prego almeno di notare la notevole differenza che c'è tra chi scrive sempre, con costanza, e chi fa un libro una-tantum per puro spirito celebrativo, magari sotto forma di autobiografia. Credo che questa 'attenuante' il tuo direttore me la debba concedere! D'altra parte, scrivere libri è sempre stato il mio sogno. Quando ero piccolo, non sognavo certo di "fare il cantautore", anche perché al tempo non esisteva neanche, la figura del cantautore. Ascoltavo molte canzoni, questo sì, e ti garantisco che ho un repertorio di cover smisurato. A volte dico a Flaco: "Io e te non moriremo mai di fame: male che vada, ci mettiamo a suonare nelle osterie e qualche soldo lo tiriamo su". Però, da piccolo, volevo fare lo scrittore. Era il mio sogno, e l'avvento del computer mi ha aiutato.
Cosa ne pensi delle operazioni benefits? Recentemente, Gaber ha scritto un brano bellissimo (L'azalea) contro questa tendenza buonistica.
Mah, sai, ognuno è libero di fare quello che gli pare. A volte ho partecipato anch'io ad operazioni di questo genere, quasi sempre spinto da amici che mi hanno tirato dentro senza che io fossi troppo convinto. Alla mia segretaria arrivano ogni giorno tantissime lettere che mi esortano a 'fare del bene'. Non ho nulla in contrario, ma non mi sento a mio agio.
La mia passione calcistica mi spinge a chiederti i 5 Garrincha. So che tifi Pistoiese ma che non sei un grande appassionato.
Esatto. Infatti, faccio fatica ad arrivare a 5 giocatori che ho amato veramente. Fammi pensare... si, il primo che mi viene in mente è Platini: lui mi piaceva tantissimo. Altri due potrebbero essere Pelè e Roberto Baggio. Da tifoso della Pistoiese dovrei dire Frustalupi, ma un po' mi vergogno. Il quinto... ma si, metterei proprio Garrincha, che è un bel simbolo di utopia.
Quando ci siamo conosciuti, eri uno degli invitati di lusso ad una cena rinascimentale fiorentina in onore dello scrittore-gourmet Montalban, Sei sempre 'Ambasciatore' della buona cucina per l'Arcigola?
E ci mancherebbe, certo che si! La cucina italiana va salvaguardata in tutti i modi. Recentemente, ho difeso a spada tratta il lardo di Colonnata, che vogliono eliminare per questioni igieniche. Sarebbe gravissimo.
Ho notato che, negli ultimi anni, hai sentito il bisogno di fare un inventario della tua vita: la biografia (Un altro giorno è andato, Giunti, 1999), il ricordo degli amici perduti...
Quello che dici è abbastanza vero per la produzione discografica: ogni disco è un bilancio. Per la biografia, il discorso è diverso. Non è che io volessi scriverla per forza. Sono stati Massimo e Riccardo (Cotto e Bertoncelli, NdA) ad insistere, ed alla fine mi hanno convinto. Dico la verità: dopo un po', mi sono annoiato. Come avrai sicuramente notato, i primi capitoli sono molto lunghi, mentre gli ultimi sono tirati via. Il motivo è che non vedevo l'ora di finirla.
Ultima domanda: ammetterai che concludere un disco con un brano intitolato “Addio” è un po' inquietante...
Come no. Pensa che molti mi hanno già scritto implorandomi di "non smettere". Il mio "Addio" non va però inteso in quel senso. Io dico "Addio" a quelle persone li, a quella brutta gente lì. Non ho alcuna voglia di smettere. Certo, non posso dirti fin da adesso quando uscirà il mio prossimo disco, anche perché i miei tempi sono lunghissimi. Però, fra tre o quattro anni, probabilmente tornerò. Nel frattempo, continuerò a scrivere e a fare concerti. Credimi, non ho alcuna voglia di smettere.
I TESTI - LATO A
I TESTI - LATO B