Signora Bovary
IL DISCO
Registrato alla Cetra Art Recording di Milano verso la fine del 1986 e pubblicato nel 1987, Signora Bovary è il tredicesimo album di Francesco Guccini.
Il titolo riprende quello del celebre romanzo Madame Bovary di Gustave Flaubert.
Il disco lo descrive lo stesso Guccini in un box di Tv Sorrisi e Canzoni del 21 marzo 1987, dal titolo “Vi racconto il mio album”:
«Scirocco» - È un vento che si fa sentire raramente a Bologna, un vento caldo e strano che quando soffia la fa apparire diversa, surrèale. La storia d'amore che, non si conclude è un episodio incorniciato da questo vento insolito, come insolita è la struttura musicale, la milonga che è una parente del tango.
«Signora Bovary» - È la prima canzone scritta per questo disco, osservando la gente che cammina in un pomeriggio semifestivo, fino a chiedermi cosa c'è nel fondo di quel pomeriggio e della notte seguente. Cosa c'è in fondo in fondo...
«Van Loon» - Era uno scrittore di divulgazione storica e geografica che si trovava nelle biblioteche piccolo borghesi degli Anni '50. Ho usato il suo nome come simbolo di una generazione, quella di mio padre, che allora ovviamente non capivo. Ma col passare del tempo ci si accorge che i valori cambiano.
«Culodritto» - Dalle mie parti di una persona stizzita si dice che «va via col culo dritto». Lo fanno spesso anche i bambini. È dedicata a mia figlia, ma spero di non essere caduto anch'io nella retorica.
«Keaton» - È la vicenda di un pianista di jazz che non sorride mai come il famoso attore del muto. L'idea è dell'amico Claudio Lolli: gli ho chiesto di rimaneggiarla un po' per sentirla più mia.
«Le piogge d'aprile» - Quando ci si accorge che certi momenti d'entusiasmo sono finiti, vien voglia di fare un po' come quegli acquazzoni di aprile che quando arrivano sembra che cambiano tutto...
«Canzone di notte n. 3» - È la terza di queste ballate a commento (ne ho già fatte due in album precedenti). È la più tradizionale delle mie canzoni, forse la faccia ironica delle piogge.
Hanno suonato in Signora Bovary: Ellade Bandini (batteria), Juan Carlos «Flaco» Biondini (chitarre), Antonio Marangolo (sax), Juan Josè Mosa
lini (bandoneon in Scirocco), Ares Tavolazzi (basso e contrabbasso), Vince Tempera (pianoforte e tastiere).
La produzione è di Renzo Fantini, mentre la programmazione delle tastiere elettroniche di Piero Cairo.
L'album è stato distribuito in formato LP, MC e CD.
Gli spartiti di Signora Bovary sono stati pubblicati da Edizioni Musicali La Voce del Padrone.
CURIOSITA'
La copertina nasce da un'idea di Renzo Fantini e Francesco Guccini.
La canzone Keaton era stata scritta da Claudio Lolli, che aveva trovato difficoltà nel pubblicare una traccia così lunga. Guccini si innamorò immediatamente del testo e decise di inserirla nel proprio album che di lì a poco sarebbe stato pubblicato, apportando alcune modifiche testuali così da co-firmarla.
Culodritto è dedicata a Teresa, la figlia di Guccini, allora bambina. È un modo di dire modenese, “andar via a culodritto”, che si usa quando i bimbi se ne vanno, indispettiti o risentiti per qualcosa.
RECENSIONI
Da “Famiglia Cristiana” del 28 gennaio 1987, un articolo di Massimo Bernardini:
Con sette freschissime poesie, il patriarca della canzone d'autore ritorna puntualmente in mezzo al suo pubblico. Un albero solido, che dà frutti maturi al tempo giusto e ancora una sfida all'indice d'ascolto. […] Signora Bovary: la novità più grossa, in queste sette canzoni nuove di zecca, è che si tratta, ancora una volta, e probabilmente con maggior lucidità, delle ultime prove di un disco da prima linea. Certo la prima linea della poesia, della fedeltà ad una canzone d'autore che, frettolosamente e distrattamente, era stata data per morta, o meglio, che il tele brusio dei tempi ci suggeriva non più attuale. E, intanto, Guccini andava più a fondo, oltre il brillante parlarsi addosso generazionale, fra il serio e il faceto, che l'ha contraddistinto in questi anni, oltre l'epica familiare e montanara, l'amarezza spaesata per i tempi mutati, le insolite metafore narrative. A tutto questo, oggi, sembra essersi sostituito un suo sentire universale, metafisica diremmo, in cui l'orizzonte individuale, esistenziale, nonostante le tentazioni di un inferno casalingo alla Madame Bovary, è parte di un più vasto sentire e riflettere. E come se oggi, Francesco ci volesse dire: è tempo di riprendere in mano, con la raggiunta lucida maturità, il senso primo che ci aveva fatto muovere, interrogare, agire; nel suo caso fare canzoni. Così le canzoni più immediatamente individuabili come “Culodritto”, dedicata, con ruvida paternità, alla figlia Teresa, o “Scirocco”, bilancio di una intricata storia amorosa, vanno sorprendentemente al nocciolo della questione: il destino ancor tutto da giocare di una vita che cresce davanti allo sguardo stupito di un padre, il desiderio che la propria o altrui storia venga spazzata da un vento di verità che è quasi sempre inafferrabile. Vento oppure pioggia, come quelle “Pioggie d'aprile”, titolo di un'altra, lucidissima canzone «che in mezz'ora lavavano un'anima o una strada, e lucidavano in fretta un pensiero o un cortile bucando la terra dura e nuova come una spada». In questo nuovo Guccini c'è voglia di slancio e di rinnovamento, di ridar senso alle parole e ai gesti. Così, in collaborazione con l'intelligente, dimenticato, ma ancor vivo e vegeto Claudio Lolli, Francesco ricorre al metaforico “Keaton”, poeta e pianista dei tempi sinceri, che nella lunghissima canzone di cui è protagonista vive due possibili conclusioni del suo destino: l'uno di dimenticato, ormai inutile poeta; l'altro di infelice, "vinto" dalla normalità. Ma non sono che alcuni assaggi di un disco poeticamente molto denso e musicalmente molto terso, svincolato dai venti dominanti che inchiodando poi un grappolo di buone canzoni ai suoni di moda. Frutto, invece, in piena scioltezza, della band che accompagna abitualmente Guccini in concerto: Ellade Bandini, batteria; Ares Tavolazzi, basso; Vince Tempera, tastiere; Juan Carlos e "Flaco" Biondini, chitarre; con l'aggiunta di Antonio Marangolo, ai sassofoni e con la chicca di uno struggente Juan José Mosalini al bandoneon. La produzione di Renzo Fantini, infine, suggella il disco con un'inedita essenzialità.
Da “L’Espresso” dell’8 marzo 1987:
"Van Loon", in una delle sette canzoni che compaiono nel mio ultimo ellepì, "Signora Bovary". Questo Van Loon altri non è se non il divulgatore, di storia e geografia, di cui Umberto Eco ha recentemente parlato in una delle sue "Bustine di Minerva", definendo lo "divertente e bizzarro, ma anche superficiale". Tutto vero. Ma, per me, Van Loon è anche quell'uomo che ha insegnato a mio padre, ai nostri padri, tutte quelle conoscenze di cui loro andavano fieri. E dunque un simbolo della generazione precedente la mia, e proprio per questo lo descrivo così: "Van Loon, uomo destinato direi da sempre ad un lavoro più forte, che le sue spalle o la sua intelligenza non volevano sopportare, sembrò quasi baciato da una buona sorte quando dovette andare". Ecco, quel" direi", così familiarmente colloquiale, si potrebbe tranquillamente eliminare, senza modificare per nulla il significato della frase: ma a me serviva per farlo allitterare con "destinato" e "da sempre", per creare quel flusso “de-di-da” capace di rendere musicale l'intero periodo».
Da “Tv Sorrisi e Canzoni” del 21 marzo 1987:
Francesco, il tuo è sempre un bello spettacolo di coerenza... Ma ti attendevi il boom di quest'ultimo album?
«Certo è partito molto bene. Ma devo dirti che il mio livello di popolarità è stato sempre piuttosto costante, e non si tratta solo di fedelissimi della mia età. Ai concerti trovo un sacco di giovani che mi chiedono anche le canzoni dei primi tempi. E la cosa mi fa molto piacere: vuol dire che quelle canzoni hanno tenuto bene...».
Ma oltre alla coerenza in questa «Signora Bovary» c'è anche la tua inquietudine...
«Certo, sono un montanaro trapiantato in città e anche le mie inquietudini ne risentono. Io credo che in me ''ci siano due forze contrastanti: una centrifuga, che mi spinge al sogno e all'avventura, e una centripeta, che mi riporta sempre lì alle mie radici di montagna».
Perché tante figure familiari in quest'ultimo lavoro?
«Beh, faccio un disco a 47 anni. Ci penso, provo a raddoppiarli: 94. Speriamo! Ma mi sembra eccessivo... Ho già mangiato tanta torta e sento il bisogno di riflettere: rivalutare certe figure del passato (mio padre) o confrontarmi con le nuove (mia figlia). E in certe canzoni c'è quello che io chiamo l'elemento sentimentale: se cerchi di mettercelo sinceramente, non in maniera furbetta, sentì che parli più direttamente alla gente». Il ricordo è l'elemento dominante anche in “Scirocco” o in “Keaton”.
Ma non c'è il rischio di rimestare troppo nel passato?
«Attenzione che la malinconia non è pessimismo: è solo il gusto di tornare a rivivere certi momenti, a ripensare certe esperienze. Flaco, il mio chitarrista argentino, è stato il primo a scoprire certe analogie tra le atmosfere del tango e quelle delle mie canzonì..».
Ci sono solo ripensamenti o anche rimpianti?
«Più che altro mi chiedo: quali cose mi rimangono da fare? Ecco, ho la sensazione che le prime volte siano ormai passate: Nella canzone "Culodritto" lo dico chiaramente: a mia figlia invidio l'età delle scoperte...».
Però come cantautore continui a fare esperienze nuove, come il concerto di lunedì 9 marzo all'Olympia di Parigi. Cosa ne pensi?
«Un'esperienza che mi ha procurato tanta ansia prima di salire sul palco... io in francese non so spiccicare parola. Comunque mi sono reso conto che c'è un grande interesse per la nostra canzone d'autore. È buffo pensare che siamo ammirati all'estero mentre qui siamo invasi dai dischi stranieri!» .
I TESTI - LATO A
I TESTI - LATO B