Ritratti
IL DISCO
Registrato, mixato e masterizzato presso Studio Fonoprint di Bologna da Roberto Barillari con l'assistenza di Giacomo Boschi e Paolo Biavati, Ritratti è il ventesimo album di Francesco Guccini.
Pubblicato nel 2004 dalla EMI, l’album è stato prodotto da Renzo Fantini.
Con Francesco Guccini alla voce, hanno suonato nel disco: Ellade Bandini (batteria Pearl, piatti Sabian), Juan Carlos «Flaco» Biondini (chitarre, cori e bouzouki), Roberto Manuzzi (sax, tastiere e armonica a bocca), Ares Tavolazzi (contrabbasso e basso), Vince Tempera (pianoforte e tastiere), Antonio Marangolo (sax e percussioni), Daniele Di Bonaventura (bandoneon), Giancarlo Bianchetti (chitarra ritmica in Odysseus).
L'edizione in vinile è stata tirata in 2.000 esemplari numerati.
L'album è stato distribuito in formato LP (in edizione limitata – tiratura 2.000 esemplari numerati), MC e CD.
CURIOSITA'
La foto di copertina tratta dall'opera di David Teniers "L'arciduca Loepoldo Guillermo nella sua galleria di quadri en Bruxelles" del 1647 (Olio su tela, cm 104,8 x 130,4; Museo National del Prado). La grafica è stata curata da Giuseppe Spada.
La canzone “La tua libertà”, ultima traccia di Ritratti, è stata incisa nel 1971, ma mai pubblicata precedentemente.
RECENSIONI
Da “La Repubblica” del 19 Febbraio 2004:
Quando cominciavamo a essere un po' stanchi dei cantautori storici che si ripetono senza l'ispirazione dei giorni migliori, rassegnati a superflui dischi "live" o a inflazionate "cover", è tonificante farsi spiazzare dal nuovo album di Francesco Guccini, il diciottesimo della serie, che scuote come un terremoto di acuminate parole. Esce domani Ritratti e contiene nove canzoni. Tra le sei inedite, spiccano quelle dedicate a Carlo Giuliani e a due navigatori come Ulisse e Cristoforo Colombo. C'è anche “La tua libertà”, incisa nel 1971, ma mai pubblicata integralmente su cd. "È stata un'idea della Emi, io non l'avrei messa", commenta il cantautore di Pavana. Due gli omaggi ad autori da lui stimati: “Canzone per il Che”, dedicata a Guevara su testo dello scrittore scomparso Manuel Vasquez Montalban, e “La Ziatta” del cantautore catalano Juan Manuel Serrat, tradotta da Guccini in dialetto modenese. La musica è sempre quella, di sapore mediterraneo, con le corde ispanicheggianti dell'argentino Flaco Biondini e le tastiere "orchestrali" di Vince Tempera, gli inseparabili, ma i versi sono quelli di un autentico vate che, nel descrivere la realtà, vola alto, trascende e sfoggia una sorprendente epicità, senza retorica né autocompiacimento. In “Piazza Alimonda”, che ricorda i fatti del G8 a Genova con gli scontri tra i no global e la polizia, culminati il 20 luglio 2001 nella morte di Carlo Giuliani, Guccini evita la demagogia della più scontata canzone politica, ricostruendo con la sua fantasia il clima di quelle giornate violente. E lo fa con tutto il dramma e la tragedia incombenti, ma anche con disarmanti squarci di tenerezza, senza fare nomi o perdersi nelle minuzie della cronaca, ma trovando l'afflato del grande poeta lirico.Un capolavoro che Guccini racconta così: "Sono stato diverse volte a Genova negli ultimi tempi. L'ho guardata bene, ho visitato anche piazza Alimonda e ho notato che c'è davvero un'aiuola triangolare. Non è colpa mia se dentro c'è la salvia splendens con il fiore rosso. L'idea è venuta di lì. È l'ultima canzone che ho scritto, l'ho finita il giorno di Santo Stefano. Qualche settimana fa mi ha chiamato il padre di Carlo Giuliani per altri motivi e ho capito che sapeva della canzone. Si era già sparsa la voce, non so come. Mi ha detto che l'avrebbe ascoltata".
Fa venire in mente un po' "La locomotiva"...
E lui serafico: "È una ballata vecchia maniera, molto gucciniana".
L'Ulisse del suo “Odysseus” è un montanaro come lei.
Sogghigna soddisfatto: "Lo so che è una teoria molto tendenziosa. Era da tempo che aspiravo a una canzone sul mare che non parlasse di ombrelloni, passeggiate sul lungomare e belle spiagge. Ho pensato che un grande navigatore può anche essere uno come me. In fondo la pietrosa Itaca poteva anche essere un'isola collinare come la Sardegna, che non è terra di celebri naviganti. È una metafora del vivere che s'ispira a vari scrittori di cose marinaresche". Che sono citati diligentemente in copertina: Omero, Dante, Foscolo, Costantino Kavafis, Jean-Claude Izzo e lo sconosciuto A. Prandi che, svela Francesco, "è mio cugino di Carpi che ha scritto cose pregevoli".
Cosa l'ha attratto nel testo di Montalban sul "Che"?
"Sono rimasto affascinato prima dalla musica di Flaco Biondini, che aveva inserito il pezzo in una compilation su Guevara. Il testo in spagnolo è basato su parole dei discorsi del Che e mi è sembrato molto buono".
In “Una canzone” spiega il difficile mestiere di scrivere un testo. La sua scrittura, con gli anni, si è fatta più densa, più profonda, più da poeta che da chansonnier.
"Forse ora somiglia più alla sceneggiatura di un film, non saprei dire. È più difficile di un tempo. Una volta ero velocissimo, adesso su una o due strofe ci posso star su parecchio, le lascio e poi ci ritorno. Un libro mi ci metto e lo scrivo, anche perché le date di consegna incombono. E lo scrivo al computer. Una canzone la devo scrivere sul foglio, devo avere un contatto fisico non solo con le parole, ma anche con i ghirigori che faccio quando non mi viene".
Al contro-festival di Mantova cosa va a fare?
"Non a cantare, vado solo a presentare il mio libro Cittanova blues, tutto qui".
E del Festival di Sanremo edizione Tony Renis cosa pensa?
"Non sono per i festival, ultimamente sono perplesso perfino del Club Tenco. Devo essere invecchiato, non riesco più a trovare lo spirito degli anni d'oro".
Come andranno le elezioni a Bologna?
"Dicono che non sarà una passeggiata, ma che alla fine vincerà Cofferati. Per scaramanzia nessuno si vuol sbilanciare troppo. I tassisti rischiano di essere la cartina di tornasole della vicenda: prima erano stanchi di Guazzaloca, ora sembra che ci abbiano ripensato. Ma Cofferati mi pare una persona degna e preparatissima. Sono andato in giro per la città con lui, per spiegargli cos'è la Cirenaica, il quartiere dov'è anche la mia via Paolo Fabbri".
Il prossimo tour sarà lungo e a pezzetti come piace a lei?
"Sono una persona di buon senso e se girassi ogni sera, come fanno molti colleghi, sarei costretto a ripetermi. Amo improvvisare e lo posso fare solo centellinando le esibizioni. Un giorno ho chiesto a Giorgio Gaber: ma tu come fai? Aveva uno spirito molto diverso dal mio. Certi artisti soffrono lontani dal palco".
Dal “Corriere della Sera” del 19 Febbraio 2004 di Mario Luzzatto Fegiz
Chi è capace di scrivere una canzone? «Gente quasi normale, ma con l' anima come un bambino che ogni tanto si mette le ali e con le parole gioca a rimpiattino», risponde Francesco Guccini in un verso di «Una canzone», che fa parte dell' album «Ritratti» presentato ieri a Milano. Ritratti in senso stretto come quello di Ulisse (con citazioni da Dante, Omero, Foscolo), Che Guevara, Cristoforo Colombo, e ritratti in senso lato come «Piazza Alimonda», che fotografa i fatti di Genova durante il G8 con particolare riferimento alla morte di Carlo GiuIiani, o come «La Ziatta (La Tieta)», una zia nubile cantata in dialetto modenese derivato dal testo catalano o di una musica di Serrat che è la stessa di «Bugiardo incosciente» di Mina. Da un punto di vista musicale e di canto il minimalismo gucciniano è radicale e rende a volte l' insieme nobilmente tedioso. Eppure Guccini scrittore è versatile e, se vuole, anche come cantante sa essere divertente.
Perché questa mancanza di chiaroscuri nel disco?
«Io realizzo un album così in un mese, in fretta, forse proprio per dare poca importanza alla veste. lo e i miei musicisti puntiamo al sodo, all' essenziale».
Ma non sente il bisogno di spettacolarizzare la sua poesia?
«E perché? Sono le parole che devono emergere. Se ascolta bene si accorgerà che la voce è fuori, mai assorbita dall' accompagnamento musicale. Perché quel che dico è la cosa più importante».
Un fiume di parole...
«Non più tanto, una volta ero più prolifico. Adesso due strofe e poi abbandono. Riprendo dopo parecchio tempo».
Nell'album lei canta «la canzone è la penna e un foglio». Non usa il computer?
«Solo per scrivere romanzi e prefazioni. La canzone ha bisogno della grafia, delle correzione, delle note a margine, della lettera più calcata della altre. Senza contare che una volta mentre ero al computer un operaio mi staccò la luce senza preavviso. E sono convinto di aver perso le due pagine più belle scritte in tutta la mia vita».
Da un punto di vista letterario i ritratti sono davvero intensi: da quel «Che» preso dai testi che Manuel Vasquez Montalban aveva messo in poesia da scritti di Guevara, al crescendo della tragedia genovese. E' una canzone politica dove, però, i buoni e i cattivi non si distinguono chiaramente.
«I cattivi si intravedono di spalle, i cattivi sono la gente che, implacabile, trova sempre una giustificazione per una morte assurda. I cattivi sono dietro la strategia che ha governato quegli eventi. I buoni sono tutti gli altri, quelli che suonano le sirene nel porto e soprattutto i giovani che scoprono come fuggendo si muore».
Fra gli altri episodi sono per molti versi folgoranti la rilettura del personaggio di Ulisse che viene rappresentato come montanaro (Itaca sembra Pavana, città natale dell'artista che a giugno compirà 64 anni) digiuno di mare che si getta con coraggio e incoscienza oltre le colonne d' Ercole e quella di Colombo che volentieri torna da un mondo che non gli è piaciuto «dove il sogno dell' oro ha creato mendicanti di un senso che galleggiano vacui nel vuoto affamati d'immenso».
Lei si riappropria anche di «Vite» che aveva concesso a Celentano nel suo ultimo album.
«Sì. Mi è sempre piaciuto immaginare le vite altrui, entrare nella case diroccate lungo sentieri abbandonati, rovistare nei ricordi, nelle foto sbiadite».
Si interessa di politica?
«Guardo i dibattiti in tv e urlo contro il televisore quando qualcuno dice qualcosa che non mi piace. Poi ho guidato Sergio Cofferati, candidato sindaco di Bologna alle imminenti elezioni, a visitare il quartiere Cirenaica dove sono nato e cresciuto. L' ho portato anche in via Paolo Fabbri. Tutto questo perché Guazzaloca, il sindaco attuale, lo aveva sfidato sulla sua scarsa conoscenza di Bologna. Non sarà facile, ma alla fine vincerà Cofferati».
Andrà al (contro)festival di Mantova a presentare il suo libro Cittanova Blues edito da Mondadori, canterà il 19 marzo a Perugia. Poi pochissime esibizioni...
«Guardo i calendari dei miei colleghi e mi chiedo come facciano a timbrare il cartellino ogni sera. Sarà che io ogni volta improvviso tutto e mi stanco di più di chi va a copione».
Presente ieri all'incontro c'era anche la figlia di Francesco, Teresa, 25 anni, che sta per laurearsi al Dams di Bologna. Con una tesi in cui compara il successo del padre a quello di Rabbie Williams spiegando come per vie diverse i due siano arrivati allo stesso risultato.
Da “L’Unità” del 19 Febbraio 2004:
C’eravamo sentiti agli inizi di gennaio. Questione di auguri. L’ho finita, mi aveva detto contento come un bambino. E come ti è venuta? Osti, bella, bella. Sentirai. Guccini parlava di “Piazza Alimonda”, il brano che sta dentro questa sua ultima fatica - lui lavora con crescente attenzione alle sue cose in musica - poetico/discografica. Era il pezzo conclusivo di “Ritratti”, aspettava solo quella per chiudersi in sala di registrazione e battezzare l’album. “Piazza Alimonda”, lo avrete capito, è una dedica, un racconto, un lamento, un grido soffocato che si porta appresso le terribili immagini del G8 genovese con quel tributo di sangue messo nel conto da una regia antidemocratica, vile e fascista che Genova e l’Italia non hanno dimenticato. Ma non è un pregiudizio politico che ci porta a premiare questo brano avvicinandoci a questo nuovo disco di Francesco. Piuttosto, lo ammettiamo, siamo assetati di cronaca, di racconti e di temi che affrontino questa Italia con le sue più atroci contraddizioni: la verità è che stiamo sempre lì ad aspettare che qualcuno, qualche artista, cantautore o regista cinematografico o teatrale, dimostri di essere in grado di testimoniare questa realtà così fortemente velata, troppo spesso nascosta, vietata, zittita. Un Omero per noi, un cantastorie cui affidare i nostri ricordi, la nostra memoria. Francesco, con la discrezione di un montanaro ossessionato da sogni di mare, di tanto in tanto ci regala frammenti d’epica dei nostri giorni ed è forse per questo che i ragazzini del nostro mondo gli dedicano tanta attenzione, quanta ne darebbero ad un loro coetaneo, informato sui fatti. Così, ecco “Piazza Alimonda”; ci è piaciuta, non sarà una ballata che col tempo perderà significato e che Guccini prima o poi farà sparire dalle sue scalette da palco. Il nostro Carlo Giuliani non viene mai nominato, ma è come se in virtù di questo semplice artificio la sua immagine aleggiasse, come una Morgana, sul testo, sui ritmi, sulle armonie. «Sì - ha detto ieri Francesco presentando l’album – è una canzone politica»: e quanto è bello e sano e forte sentirsi rispondere così da un artista italiano, evitando le cautele, gli opportunismi, la banale paura di spiacere a qualcuno. «Spiacere è il mio piacere», aveva cantato Francesco in Cyrano. Ci sta. Per il resto, il disco avrebbe potuto reggere anche un altro titolo, tipo «Sogni» e nessuno se ne sarebbe lamentato. Voglio dire che, prestando a questo lavoro uno sguardo complessivo che tenga conto del sapore depositato dal primo ascolto, si ha la sensazione di sentir scorrere una sequenza di avventure mai uscite allo scoperto della coscienza, ma covate di notte tra un cuscino e un piumone. Scorrete i titoli: “Odysseus”, “Canzone per il Che”, “Vite”, “Cristoforo Colombo”. È un trionfo di mari, di gente che va, di avventure lontane ma lui, Francesco, è tra le persone più immobili che esistano, ha una sua persistenza salgariana, annidato tra i monti che non ce la fanno a separare per bene le province di Pistoia e di Bologna. È un segno del destino che, circondato da boschi e casali amati appassionatamente, trovi quel che non cerca in orizzonti non finiti, dove tutto è instabile, il cielo, il mare e ancora il mare. In questo andare dove tutto è fluido, Guccini trova coerenze anche negli schemi musicali, non solo nell’onnipresente parola. Liquidi sono gli arrangiamenti, liquido l’incedere di un modulo che solo di rado si inerpica e sorprende e quando evade lo fa assecondando un gioco di citazioni ritmiche alle quali affida l’eccipiente del potere evocatore di atmosfere appropriate. È vero, non è mai stato uno che adatta reciprocamente testi e musiche, musiche e testi, ma in questo caso sembra più forte e trasparente il suo rilasciare le parole in una sorta di galleggiamento perenne, anche saltellando tra un brano e l’altro. La voce lo segue fedele in questo depositare sensi poetici onda su onda, tanto che pare avvicinarsi, per questa dinamica, al grande Leo Ferré che alla musica faceva fare esattamente ciò che serviva alla parola. Attonito e felice, ancora una volta come un bimbo, Guccini continua a scoprire la vita seguendone la curva epica disegnata dalla assenza di moventi: «E andare - recita in “Odysseus” - come spinto dal destino verso una guerra, verso l’avventura e tornare contro ogni vaticinio contro gli Dei e contro la paura». Lo trovi sempre lì, accovacciato davanti ai grandi portali del mito, come all’inizio della sua attività di poeta in musica quando cantava: «Vedremo soltanto una sfera di fuoco, più grande del sole più vasta del mondo, mai mano d’uomo la toccherà e solo il silenzio come un sudario si stenderà tra il cielo e la terra per mille secoli almeno», candidamente rapito da immagini immense disegnate una fantasia popolare, poeticamente enfatizzate da una trasmissione orale, come un canto omerico. «E fuggendo si muore...», prosegue nello stesso “Odysseus” e par che anticipi il senso di “Canzone per il Che”, il cui testo non è suo ma di Vasquez Montalban, «e se il rivoluzionario non trova altro riposo che la morte... niente o nessuno lo trattenga», e insieme si allinea con le parole dedicate a Giuliani in “Piazza Alimonda”: «Uscir di casa a vent’anni è quasi un obbligo, quasi un dovere». La tragedia dell’andare, il destino dell’uomo. Con qualche ironica correzione: in “Cristoforo Colombo”, per esempio, il coraggioso capitano intravvede nelle terre da lui scoperte il destino che avranno e allora «naviga, naviga via più lontano possibile da quell’assordante bugia... nel suo cuore la Nina, la Pinta e la Santa Maria». Tra un’onda e l’altra nel mare dell’epica, piccole dediche di grandi amori: “Vite”, offerta non alla gente ma alle persone, alle loro storie, “Certo non sai”, non alle persone ma a una sola, quella che divide il suo cuscino e il suo sognare, “La Ziatta”, non alle persone ma a una lingua, il modenese. Sorpresa: in coda all’album c’è un brano di Guccini che ha la sua bella età (il pezzo, non Francesco); è datato 1971, eseguito allora, mai edito prima e inserito nella scaletta; si intitola “La tua libertà”. È bella anche se lui dice che è datata e che se ci avesse pensato in tempo l’avrebbe scartata. Non gli piacciono nemmeno gli arrangiamenti. Pazienza, per fortuna non ha avuto quel tempo. Note al margine: Guccini fa sapere che al festival di Mantova non canterà solo perché non ama i festival: «Sono invecchiato – dice - ma è anche l’unico modo per non morire giovani»; ci sarà comunque per presentare il suo libro “Cittànova Blues”; contano le azioni. Tifa,ma si sapeva, Cofferati come prossimo sindaco di Bologna perché è bravo, serio e preparato, lo conosce da vicino. Non ha il coraggio di fare pronostici in proposito, ma racconta che i suoi vati preferiti, i taxisti, segnano bel tempo per la sinistra e i suoi candidati. Scrive più lentamente di una volta: «Forse ero più bravo - racconta - ora scrivo e ci torno su». È la dittatura della parola, la sola verso la quale si può correre senza perdere la libertà.
I TESTI - LATO A
I TESTI - LATO B