Radici


IL DISCO

Registrato a Milano nella primavera del 1972, Radici è il quarto album di Francesco Guccini, che è anche autore di tutti i testi e delle musiche.

L'album si caratterizza per la cura rivolta alla parte musicale, lontanamente influenzata dalle tendenze progressive tipiche del periodo ed è considerato l'album capolavoro di Guccini.

Prodotto da Pier Farri, gli arrangiamenti sono di Pier Farri, Francesco Guccini e Vince Tempera, mentre il tecnico del suono è Ezio De Rosa.

Insieme a Guccini (voce, chitarra), suonano Deborah Kooperman (flauto, chitarra, banjo), Vince Tempera (tastiera), Maurizio Vandelli (mellotron), Gigi Rizzi (chitarra elettrica), Ares Tavolazzi (basso) e Ellade Bandini (batteria).

L’album contiene La Locomotiva, una delle canzoni più celebri di Guccini, immancabilmente eseguita alla fine di ogni suo concerto e racconta in chiave poetica il gesto di Pietro Rigosi che, il 20 luglio del 1894, all'età di 28 anni, prese il controllo di una locomotiva sganciata da un treno merci e la lanciò alla velocità (notevole, per l'epoca) di 50 km/h, verso la stazione di Bologna.

 

Di questa vicenda è lo stesso Guccini a parlarne in un’intervista su La Stampa l’11 gennaio 2015:

“In un diario di ex operai del Bolognese dell’800 avevo trovato la storia di questo Pietro Rigosi che arrivato in officina si impadronisce di una locomotiva e si dirige a velocità folle verso Bologna. Deviata su un binario morto, si schiantò contro carri merci fermi. Sbalzato dall’abitato, Rigosi sopravvisse ma non disse mai il perché. Non ho mai scritto così veloce, ci ho messo mezz’ora. Scrivevo e prendevo appunti e l’inizio mi è venuto per ultimo”. 

 

L'album è stato distribuito da EMI Italiana in formato LP, Stereo8, MC e CD.

Di Radici sono disponibili gli spartiti pubblicati da Edizioni Musicali La Voce del Padrone.

 

 

CURIOSITA'

Foto nel retro di copertina

 

Nella foto di copertina ci sono i bisnonni di Francesco con dietro i quattro figli, tra i quali il nonno e il suo prozio, che poi ha cantato in Amerigo.

La foto nel retro di copertina è di Oscar Goldoni.

Il musicologo Roberto Leydi ha definto La Locomotiva "la più bella canzone popolare del Dopoguerra".

RECENSIONI

Dalla rivista Nuovo Sound del 9 luglio 1976:

Copertina della rivista "Nuovo Sound" (1976)

Ascoltando alcune delle molte radio private che sono sorte, anche qui a Roma, abbiamo notato che una delle tue canzoni più programmate e richieste dal pubblico è “La locomotiva” che era inclusa in quella che possiamo considerare la tua opera più riuscita: l'album “Radici”. Come spieghi questo successo?

“Credo che sia una delle mie canzoni più riuscite forse perché è molto romanzata. Bisogna dire, inoltre, che pur non essendo nata come canzone politica è stata assunta come tale… perché? Molti ascoltatori, oggi, sono politicizzati, in modo particolare i giovani e quindi amano ascoltare questo genere di composizioni: in effetti, per il tono abbastanza enfatico e retorico, “La locomotiva” ricorda molto da vicino certe canzoni anarchiche come "Addio Lugano”.

 

 

 

 

Dalla rivista Boy del 17 dicembre 1978, tratto da un pezzo di Laura Reggiani:

Foto tratta dalla rivista "Boy" (1978)

Le citazioni personali però ricorrono spesso nei tuoi dischi.

«E' vero, ne faccio spesso, anche oggi. E' la canzone come mio modo di raccontare delle storie. E poi preferisco questo tipo di canzoni alle altre. “La locomotiva”, per esempio, appartiene a questo tipo, perché io racconto una storia che mi è piaciuta e che non pensavo, nel modo più assoluto, sarebbe poi diventata quella specie di bandiera che è diventata. Voglio dire, è giusto così, perché si vede che aveva delle cose dentro di cui io non mi ero del tutto reso conto, ma in se stessa “La locomotiva”, nasce come storia anarchica e romantica del primo Novecento».

[...]

Poi c'è Radici. Ero entrato a quei tempi in un piccolo trantran provinciale tranquillo, cantavo tutti i giovedì sera per pochi amici all'Osteria delle Dame, a Bologna, insegnavo e pensavo che tutto si sarebbe fermato lì. Radici è quindi il famoso ‘ultimo disco’, nel senso che raccoglie una serie di esperienze come una sorta di ‘summa’: c'è “Piccola città” che è Modena, c’è “Radici” che è Pavana e la casa dei nonni, c'è “La locomotiva” con le sue matrici vagamente politiche, c'è “Incontro” come rivisitazione di un'amicizia.

 

Dalla rivista Popster del 17 settembre 1978:

Foto tratta dalla rivista "Popster" (1980)

Nel 1972 esce “Radici”, una sorta di sintesi di tutte le matrici del nostro, etniche, politiche e sentimentali; in copertina c'è una foto di famiglia vibrata seppia, col bisnonno Francesco circondato dalla famiglia; in contro copertina la nuova famiglia Guccini, Francesco, Roberta e il gatto. Nel disco si fondono radici anagrafiche (Pavana e la casa dei nonni, Modena dell' adolescenza, ‘piccola città, bastardo posto... angoli di strada testimoni degli erotici miei sogni, frustrazioni e amori a vuoto... se penso a un giorno o a un momento ritrovo soltanto malinconia, è tutto un incubo scuro, un periodo di buio gettato via…”) e radici più emotive che strettamente ideologiche, come nella canzone dell'anarchico ferroviere che muore sulla sua locomotiva “lanciata a bomba contro l'ingiustizia”; storia che Guccini per primo definisce “un po' ingenua e retorica”, aggiungendo però che “forse questo è a volte un pregio”. Nelle note di copertina c'è anche una difesa dell'uso degli arrangiamenti, rivolta evidentemente a chi preferiva il Guccini ‘povero’ a quello elaborato e spettacolare dell'isola: “Dicono spesso alcuni miei amici che certe mie canzoni hanno più forza e verità se cantate dal vivo, con la chitarra soltanto, ma... non è perdere in genuinità cercare di vestire le canzoni con un poco di musica in più, fare dischi per cantare sempre con la sola chitarra non avrebbe molto senso... bisogna cercare di andare sempre un poco avanti, anche musicalmente; che ci si riesca o no, questo è un altro discorso”. Di fatto comunque da “Radici” in poi gli arrangiamenti si stabilizzano su un registro più discreto e coerente al personaggio che ormai ha messo a fuoco la sua dimensione e rinuncia a civetterie tecniche ormai fuori posto come il raddoppio delle voci o l'uso di sonorità troppo elettriche. Uscito dal chiuso dell'Osteria delle Dame Guccini fa sempre più concerti in giro per l'Italia (a Roma è spesso a suonare al Folkstudio) e chi ha occasione di sentirlo dal vivo scopre un cantastorie che, oltre ad aver letto Ginsberg e Pavese e ad aver ascoltato Dylan e Cohen, rivela autonome capacità di intrattenitore: il fiasco di vino è un elemento costante e sdrammatizzante, in scena con Guccini dall'inizio alla fine di ogni serata. E dai momenti più alcolici e disimpegnati di queste serate nascerà “Opera buffa”, raccolta di canzoni/recitati inizialmente utilizzati come momento di distensione tra una canzone ‘seria’ e l'altra.

I TESTI - LATO A

 

La casa sul confine della sera oscura e silenziosa se ne sta, respiri un' aria limpida e leggera e senti voci forse di altra età, e senti voci forse di altra età...

La casa sul confine dei ricordi, la stessa sempre, come tu la sai e tu ricerchi là le tue radici se vuoi capire l'anima che hai, se vuoi capire l'anima che hai...

Quanti tempi e quante vite sono scivolate via da te, come il fiume che ti passa attorno, tu che hai visto nascere e morire gli antenati miei, lentamente, giorno dopo giorno ed io, l'ultimo, ti chiedo se conosci in me qualche segno, qualche traccia di ogni vita o se solamente io ricerco in te risposta ad ogni cosa non capita, risposta ad ogni cosa non capita...

Ma è inutile cercare le parole, la pietra antica non emette suono o parla come il mondo e come il sole, parole troppo grandi per un uomo, parole troppo grandi per un uomo...

E te li senti dentro quei legami, i riti antichi e i miti del passato e te li senti dentro come mani, ma non comprendi più il significato, ma non comprendi più il significato...

Ma che senso esiste in ciò che è nato dentro ai muri tuoi, tutto è morto e nessuno ha mai saputo o solamente non ha senso chiedersi, io più mi chiedo e meno ho conosciuto. Ed io, l'ultimo, ti chiedo se così sarà per un altro dopo che vorrà capire e se l'altro dopo qui troverà il solito silenzio senza fine, il solito silenzio senza fine...

La casa è come un punto di memoria, le tue radici danno la saggezza e proprio questa è forse la risposta e provi un grande senso di dolcezza, e provi un grande senso di dolcezza...

Non so che viso avesse, neppure come si chiamava, con che voce parlasse, con quale voce poi cantava, quanti anni avesse visto allora, di che colore i suoi capelli, ma nella fantasia ho l'immagine sua: gli eroi son tutti giovani e belli, gli eroi son tutti giovani e belli, gli eroi son tutti giovani e belli...

Conosco invece l'epoca dei fatti, qual' era il suo mestiere: i primi anni del secolo, macchinista, ferroviere, i tempi in cui si cominciava la guerra santa dei pezzenti sembrava il treno anch' esso un mito di progresso lanciato sopra i continenti, lanciato sopra i continenti, lanciato sopra i continenti...

E la locomotiva sembrava fosse un mostro strano che l'uomo dominava con il pensiero e con la mano: ruggendo si lasciava indietro distanze che sembravano infinite, sembrava avesse dentro un potere tremendo, la stessa forza della dinamite, la stessa forza della dinamite, la stessa forza della dinamite..

Ma un' altra grande forza spiegava allora le sue ali, parole che dicevano "gli uomini son tutti uguali" e contro ai re e ai tiranni scoppiava nella via la bomba proletaria e illuminava l' aria la fiaccola dell' anarchia, la fiaccola dell' anarchia, la fiaccola dell' anarchia...

Un treno tutti i giorni passava per la sua stazione, un treno di lusso, lontana destinazione: vedeva gente riverita, pensava a quei velluti, agli ori, pensava al magro giorno della sua gente attorno, pensava un treno pieno di signori, pensava un treno pieno di signori, pensava un treno pieno di signori...

Non so che cosa accadde, perchè prese la decisione, forse una rabbia antica, generazioni senza nome che urlarono vendetta, gli accecarono il cuore: dimenticò pietà, scordò la sua bontà, la bomba sua la macchina a vapore, la bomba sua la macchina a vapore, la bomba sua la macchina a vapore...

E sul binario stava la locomotiva, la macchina pulsante sembrava fosse cosa viva, sembrava un giovane puledro che appena liberato il freno mordesse la rotaia con muscoli d' acciaio, con forza cieca di baleno, con forza cieca di baleno, con forza cieca di baleno...

E un giorno come gli altri, ma forse con più rabbia in corpo pensò che aveva il modo di riparare a qualche torto. Salì sul mostro che dormiva, cercò di mandar via la sua paura e prima di pensare a quel che stava a fare, il mostro divorava la pianura, il mostro divorava la pianura, il mostro divorava la pianura...

Correva l' altro treno ignaro e quasi senza fretta, nessuno immaginava di andare verso la vendetta, ma alla stazione di Bologna arrivò la notizia in un baleno: "notizia di emergenza, agite con urgenza, un pazzo si è lanciato contro al treno, un pazzo si è lanciato contro al treno, un pazzo si è lanciato contro al treno..."

Ma intanto corre, corre, corre la locomotiva e sibila il vapore e sembra quasi cosa viva e sembra dire ai contadini curvi il fischio che si spande in aria: "Fratello, non temere, che corro al mio dovere! Trionfi la giustizia proletaria! Trionfi la giustizia proletaria! Trionfi la giustizia proletaria!"

E intanto corre corre corre sempre più forte e corre corre corre corre verso la morte e niente ormai può trattenere l' immensa forza distruttrice, aspetta sol lo schianto e poi che giunga il manto della grande consolatrice, della grande consolatrice, della grande consolatrice...

La storia ci racconta come finì la corsa la macchina deviata lungo una linea morta... con l' ultimo suo grido d' animale la macchina eruttò lapilli e lava, esplose contro il cielo, poi il fumo sparse il velo: lo raccolsero che ancora respirava, lo raccolsero che ancora respirava, lo raccolsero che ancora respirava...

Ma a noi piace pensarlo ancora dietro al motore mentre fa correr via la macchina a vapore e che ci giunga un giorno ancora la notizia di una locomotiva, come una cosa viva, lanciata a bomba contro l'ingiustizia, lanciata a bomba contro l'ingiustizia, lanciata a bomba contro l'ingiustizia!

Piccola città, bastardo posto, appena nato ti compresi o fu il fato che in tre mesi mi spinse via; piccola città io ti conosco, nebbia e fumo non so darvi il profumo del ricordo che cambia in meglio, ma sono qui nei pensieri le strade di ieri, e tornano visi e dolori e stagioni, amori e mattoni che parlano...

Piccola città, io poi rividi le tue pietre sconosciute, le tue case diroccate da guerra antica; mia nemica strana sei lontana coi peccati fra macerie e fra giochi consumati dentro al Florida: cento finestre, un cortile, le voci, le liti e la miseria; io, la montagna nel cuore, scoprivo l' odore del dopoguerra...

Piccola città, vetrate viola, primi giorni della scuola, la parola ha il mesto odore di religione; vecchie suore nere che con fede in quelle sere avete dato a noi il senso di peccato e di espiazione: gli occhi guardavano voi, ma sognavan gli eroi, le armi e la bilia, correva la fantasia verso la prateria, fra la via Emilia e il West...

Sciocca adolescenza, falsa e stupida innocenza, continenza, vuoto mito americano di terza mano, pubertà infelice, spesso urlata a mezza voce, a toni acuti, casti affetti denigrati, cercati invano; se penso a un giorno o a un momento ritrovo soltanto malinconia e tutto un incubo scuro, un periodo di buio gettato via...

Piccola città, vecchia bambina che mi fu tanto fedele, a cui fui tanto fedele tre lunghi mesi; angoli di strada testimoni degli erotici miei sogni, frustrazioni e amori a vuoto mai compresi; dove sei ora, che fai, neghi ancora o ti dai sabato sera? Quelle di adesso disprezzi, o invidi e singhiozzi se passano davanti a te?

Piccola città, vecchi cortili, sogni e dei primaverili, rime e fedi giovanili, bimbe ora vecchie; piango e non rimpiango, la tua polvere, il tuo fango, le tue vite, le tue pietre, l'oro e il marmo, le catapecchie: così diversa sei adesso, io son sempre lo stesso, sempre diverso, cerco le notti ed il fiasco, se muoio rinasco, finchè non finirà...

I TESTI - LATO B

 

E correndo mi incontrò lungo le scale, quasi nulla mi sembrò cambiato in lei, la tristezza poi ci avvolse come miele per il tempo scivolato su noi due. Il sole che calava già rosseggiava la città già nostra e ora straniera e incredibile e fredda: come un istante "deja vu", ombra della gioventù, ci circondava la nebbia...

Auto ferme ci guardavano in silenzio, vecchi muri proponevan nuovi eroi, dieci anni da narrare l'uno all' altro, ma le frasi rimanevan dentro in noi: "cosa fai ora? Ti ricordi? Eran belli i nostri tempi, ti ho scritto è un anno, mi han detto che eri ancor via". E poi la cena a casa sua, la mia nuova cortesia, stoviglie color nostalgia...

E le frasi, quasi fossimo due vecchi, rincorrevan solo il tempo dietro a noi, per la prima volta vidi quegli specchi, capii i quadri, i soprammobili ed i suoi. I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway, il sentirsi nuovi, le cose sognate e ora viste: la mia America e la sua diventate nella via la nostra città tanto triste...

Carte e vento volan via nella stazione, freddo e luci accesi forse per noi lì ed infine, in breve, la sua situazione uguale quasi a tanti nostri films: come in un libro scritto male, lui s' era ucciso per Natale, ma il triste racconto sembrava assorbito dal buio: povera amica che narravi dieci anni in poche frasi ed io i miei in un solo saluto...

E pensavo dondolato dal vagone "cara amica il tempo prende il tempo dà... noi corriamo sempre in una direzione, ma qual sia e che senso abbia chi lo sa... restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento, le luci nel buio di case intraviste da un treno: siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno...

Viene Gennaio silenzioso e lieve, un fiume addormentato fra le cui rive giace come neve il mio corpo malato, il mio corpo malato... Sono distese lungo la pianura bianche file di campi, son come amanti dopo l'avventura neri alberi stanchi, neri alberi stanchi...

Viene Febbraio, e il mondo è a capo chino, ma nei convitti e in piazza lascia i dolori e vesti da Arlecchino, il carnevale impazza, il carnevale impazza... L'inverno è lungo ancora, ma nel cuore appare la speranza nei primi giorni di malato sole la primavera danza, la primavera danza..

Cantando Marzo porta le sue piogge, la nebbia squarcia il velo, porta la neve sciolta nelle rogge il riso del disgelo, il riso del disgelo... Riempi il bicchiere, e con l'inverno butta la penitenza vana, l'ala del tempo batte troppo in fretta, la guardi, è già lontana, la guardi, è già lontana...

O giorni, o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi è questa vita mia. Diverso tutti gli anni, ma tutti gli anni uguale, la mano di tarocchi che non sai mai giocare, che non sai mai giocare.

Con giorni lunghi al sonno dedicati il dolce Aprile viene, quali segreti scoprì in te il poeta che ti chiamò crudele, che ti chiamò crudele... Ma nei tuoi giorni è bello addormentarsi dopo fatto l'amore, come la terra dorme nella notte dopo un giorno di sole, dopo un giorno di sole...

Ben venga Maggio e il gonfalone amico, ben venga primavera, il nuovo amore getti via l'antico nell' ombra della sera, nell' ombra della sera... Ben venga Maggio, ben venga la rosa che è dei poeti il fiore, mentre la canto con la mia chitarra brindo a Cenne e a Folgore, brindo a Cenne e a Folgore...

Giugno, che sei maturità dell'anno, di te ringrazio Dio: in un tuo giorno, sotto al sole caldo, ci sono nato io, ci sono nato io... E con le messi che hai fra le tue mani ci porti il tuo tesoro, con le tue spighe doni all' uomo il pane, alle femmine l' oro, alle femmine l' oro...

O giorni, o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi è questa vita mia. Diverso tutti gli anni, ma tutti gli anni uguale, la mano di tarocchi che non sai mai giocare, che non sai mai giocare...

Con giorni lunghi di colori chiari ecco Luglio, il leone, riposa, bevi e il mondo attorno appare come in una visione, come in una visione... Non si lavora Agosto, nelle stanche tue lunghe oziose ore mai come adesso è bello inebriarsi di vino e di calore, di vino e di calore...

Settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull' età, dopo l' estate porta il dono usato della perplessità, della perplessità... Ti siedi e pensi e ricominci il gioco della tua identità, come scintille brucian nel tuo fuoco le possibilità, le possibilità...

Non so se tutti hanno capito Ottobre la tua grande bellezza: nei tini grassi come pance piene prepari mosto e ebbrezza, prepari mosto e ebbrezza... Lungo i miei monti, come uccelli tristi fuggono nubi pazze, lungo i miei monti colorati in rame fumano nubi basse, fumano nubi basse...

O giorni, o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi è questa vita mia. Diverso tutti gli anni, e tutti gli anni uguale, la mano di tarocchi che non sai mai giocare, che non sai mai giocare...

Cala Novembre e le inquietanti nebbie gravi coprono gli orti, lungo i giardini consacrati al pianto si festeggiano i morti, si festeggiano i morti... Cade la pioggia ed il tuo viso bagna di gocce di rugiada te pure, un giorno, cambierà la sorte in fango della strada, in fango della strada...

E mi addormento come in un letargo, Dicembre, alle tue porte, lungo i tuoi giorni con la mente spargo tristi semi di morte, tristi semi di morte... Uomini e cose lasciano per terra esili ombre pigre, ma nei tuoi giorni dai profeti detti nasce Cristo la tigre, nasce Cristo la tigre...

O giorni, o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi è questa vita mia. Diverso tutti gli anni, ma tutti gli anni uguale, la mano di tarocchi che non sai mai giocare, che non sai mai giocare che non sai mai giocare, che non sai mai giocare che non sai mai giocare, che non sai mai giocare...

E poi e poi, gente viene qui e ti dice di sapere già ogni legge delle cose. E tutti, sai, vantano un orgoglio cieco di verità fatte di formule vuote... E tutti, sai, ti san dire come fare, quali leggi rispettare, quali regole osservare, qual'è il vero vero... E poi, e poi, tutti chiusi in tante celle fanno a chi parla più forte per non dir che stelle e morte fan paura...

Al caldo del sole, al mare scendeva la bambina portoghese, non c'eran parole, rumori soltanto come voci sorprese, il mare soltanto e il suo primo bikini amaranto, le cose più belle e la gioia del caldo alla pelle...

Gli amici vicino sembravan sommersi dalla voce del mare... O sogni o visioni, qualcosa la prese e si mise a pensare, sentì che era un punto al limite di un continente, sentì che era un niente, l'Atlantico immenso di fronte...

E in questo sentiva qualcosa di grande che non riusciva a capire, che non poteva intuire,

che avrebbe spiegato, se avesse capito lei, quell' oceano infinito... Ma il caldo l'avvolse, si sentì svanire e si mise a dormire e fu solo del sole, come di mani future; restaron soltanto il mare e un bikini amaranto...

E poi e poi, se ti scopri a ricordare, ti accorgerai che non te ne importa niente e capirai che una sera o una stagione son come lampi, luci accese e dopo spente e capirai che la vera ambiguità è la vita che viviamo, il qualcosa che chiamiamo esser uomini... E poi, e poi, che quel vizio che ti ucciderà non sarà fumare o bere, ma il qualcosa che ti porti dentro, cioè vivere, vivere e poi, poi vivere e poi, poi vivere...

Un vecchio e un bambino si preser per mano e andarono insieme incontro alla sera; la polvere rossa si alzava lontano e il sole brillava di luce non vera...

L' immensa pianura sembrava arrivare fin dove l'occhio di un uomo poteva guardare e tutto d' intorno non c'era nessuno: solo il tetro contorno di torri di fumo...

I due camminavano, il giorno cadeva, il vecchio parlava e piano piangeva: con l' anima assente, con gli occhi bagnati, seguiva il ricordo di miti passati...

I vecchi subiscon le ingiurie degli anni, non sanno distinguere il vero dai sogni, i vecchi non sanno, nel loro pensiero, distinguer nei sogni il falso dal vero...

E il vecchio diceva, guardando lontano: "Immagina questo coperto di grano, immagina i frutti e immagina i fiori e pensa alle voci e pensa ai colori

e in questa pianura, fin dove si perde, crescevano gli alberi e tutto era verde, cadeva la pioggia, segnavano i soli il ritmo dell' uomo e delle stagioni..."

Il bimbo ristette, lo sguardo era triste, e gli occhi guardavano cose mai viste e poi disse al vecchio con voce sognante: "Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!"

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