L’ultima thule
IL DISCO
L'ultima Thule è il ventiquattresimo ed ultimo album di Francesco Guccini, Uscito il 27 novembre 2012, l’album è stato registrato all'interno del Mulino della famiglia Guccini a Pavana.
Il disco si è rivelato l'ennesimo successo per Guccini: nel giro di un mese ha venduto più di 100.000 copie, risultando tra i cinque album più venduti in Italia nel periodo natalizio.
A fine 2013 la FIMI gli ha attribuito il secondo disco di platino, per le oltre 120.000 copie vendute.
Nel corso dello stesso anno è stato realizzato il film Francesco Guccini La mia Thule che documenta la registrazione del disco, in una sala di incisione particolare e creata per l'occasione nel mulino di Chicòn, a Pàvana, in cui il cantautore abitò e a cui sono legati alcuni momenti della sua vita e alcune sue opere letterarie e canzoni.
Questo disco non è stato presentato in tournée dall'autore.
Con Francesco Guccini alla voce, hanno suonato nel disco: Juan Carlos Biondini (chitarra, mandolino), Pierluigi Mingotti (basso, contrabbasso, oboe), Ellade Bandini (batteria), Vince Tempera (pianoforte), Paolo Simonazzi (ghironda), Vittorio Piombo (violoncello), Roberto Manuzzi (fisarmonica, armonica a bocca, tastiera, sassofono soprano, flauto, sintetizzatore, clarinetto, organo Hammond), Antonio Marangolo (sassofono tenore, sassofono soprano, percussioni).
L'album è stato distribuito in formato LP (in edizione limitata) e CD.
L’Ultima Thule è l’unico album di Guccini che non è uscito in formato MC.
CURIOSITA'
Come copertina del disco Guccini ha scelto un veliero fra i ghiacci polari, una foto scattata da Luca Bracali durante i suoi viaggi.
L'edizione digitale contiene anche un video registrato a Pavana in cui Francesco Guccini racconta i giorni della lavorazione de L'ultima Thule.
Franco Casari e Ariela Caruso sono le voci intro in "Canzone di notte n.4", mentre il Fiume Limentra è la ''voce'' ne "L'ultima volta".
RECENSIONI
Da “La Repubblica XL” del Dicembre 2012:
Quella di Pavana è “la casa sul confine dei ricordi” raccontata in “Radici” e in tante altre canzoni. Da anni Guccini vive qui, sull’Appennino Pistoiese al confine tra Toscana ed Emilia. Non è un ritiro, né una fuga, ma una scelta consapevole. Un luogo dell’anima dove ci accoglie con antica cortesia, tra pile di libri e mobili riempiti di storie. Dice che questo sarà il suo ultimo disco. Lo ha registrato a poca distanza, nel vecchio mulino dei nonni restaurato qualche anno fa da un suo cugino. Otto pezzi, come un vecchio Lp. Lo ha chiamato “L'ultima Thule”, metafora di un approdo definitivo: «Ho pensato all'immagine della nave col navigatore da solo senza più ciurma, con le vele smesse, nel suo ultimo viaggio. Ci pensavo fin dai tempi di Radici, che volevo intitolare proprio “L'ultima Thule”, e il primo verso l'ho scritto quindici anni fa. Credo di aver letto della leggenda di Thule (un'isola nell'estremo Nord d'Europa, raccontata dall'esploratore greco Pitea e trasformata poi da Virgilio nel mito di una terra al di là di ogni mondo conosciuto, ndr) tanti anni fa in un libro di Borges, e mi è rimasta dentro. Come mi è rimasta addosso l'immagine di un quadro di Bocklin, L'isola dei morti, che rappresenta una zona finale tra i ghiacci, dove non c'è più vita. Nulla a che fare con la Thule dei nazisti, ovviamente». Poi spiega la scelta dell'immagine di copertina, una foto di un veliero tra i ghiacci scattata dal fotografo Luca Bracali, e del freddo che evoca in lui l'idea della morte: «Questo navigatore che ha passato tre volte Capo Horn, che allora era un'impresa eccezionale, che ha visto animali rari e luoghi misteriosi, si ritrova a pensare di essere arrivato al traguardo. E la fine per me è fredda.
Oggi, quando ti ritrovi tra amici, cominci a ricordare tutti quelli che non ci sono più. Non vivo nella tragedia, ma è difficile non pensarci. Tante cose sono state fatte e non si faranno più. E poi c'è la coscienza che anche queste canzoni, e chi le ha scritte, verranno dimenticate. Senza drammi, ma è così». Poi il discorso scivola su un'altra canzone del disco, “L'ultima volta” (quando è stata quell'ultima volta che hai sentito tua madre cantare? Quando in casa, leggendo il giornale hai veduto tuo padre fumare mentre tu ritornavi a studiare?»), che fa venire a sua volta in mente un verso di “Amerigo” (Finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo»), la canzone che a metà dei 70 aveva dedicato al suo prozio Enrico partito emigrante per l'America e tornato poi a Pavana in vecchiaia: «Ho il rimorso profondissimo di non avergli chiesto nulla della sua esperienza da emigrante, ma allora la mia testa era rivolta a tutt'altro. Io sono agnostico, ma mi piace immaginare una specie di panteismo, una possibilità di rivedere queste persone che a un certo punto non ho visto più». Malinconie ne ha sempre avute, come anche la passione per la canzone civile, quasi epica: “Su in collina” è una canzone che fotografa un momento eroico di lotta partigiana. Ho tradotto in italiano una poesia dialettale bolognese, che mi ha segnalato Loriano Machiavelli. Mi ha colpito la crudezza, la bellezza dell'episodio. Quel giorno d'aprile è un brano liberatorio, l'immagine del 25 aprile 1945. E poi c'è “Il testamento di un pagliaccio”, che racconta utto il malessere contemporaneo». Un malessere non esistenziale, ma legato al contesto sociale. Gli chiedo se ha ancora il pragmatismo di qualche anno fa, quando disse «poche storie, se c'è Rutelli, si vota Rutelli» e se accetterebbe un incarico pubblico come ha fatto Battiato: «Ma quella frase su Rutelli era dettata dalla necessità: lì bisognava battere Berlusconi. Parlando dell'oggi, se vince Bersani voto PD. Mi sembra una persona seria. Se vince Renzi non lo so. E comunque rifuggirei da ogni incarico per senso di inadeguatezza. Una volta mi proposero di diventare il direttore artistico del Teatro Comunale di Bologna e li ho presi per matti. Battiato organizza già un festival e sicuramente conosce già certi meccanismi. lo non sarei assolutamente capace». E non è curioso, per lui, che la destra (specie i ragazzi) si sia avvicinata alla sua musica? «La cosa mi sorprende. Ma ho anche letto che Che Guevara è ormai un'icona della destra. Si vede che tutto quello che ha sfumature di eroico, di rivoluzioni, di gesto simbolico fa parte del loro mondo». Non sarà che a sinistra il pensiero si è fatto debole? «Non saprei. Però vedo che la sera con gli amici, quando escono certe canzoni anarchiche, di officina, la gente si infiamma. C'è bisogno di questo tipo di mitologie. Si rischia la retorica, ma servono». Così finiamo a parlare del potere delle canzoni, dei pellegrinaggi di fan vecchi e giovani in quella casa e su al mulino (e molti cercano la porta verde di Amerigo, che però non c'è più: è stata sverniciata e riportata al colore naturale») di Pavana com'era e delle tante storie conservate nella memoria. Mi viene in mente che io e lui siamo paralleli, ma non so bene cosa possa significare. Mi dice che oggi lo infastidiscono la politica, certa tv, la corsa al guadagno, ma poi aggiunge che sono frasi fatte, fin troppo ovvie. Provo a chiedergli un ricordo, una suggestione di qualche collega. Comincio con Domenico Modugno: «Da giovane ho fatto per due anni il giornalista. Lo intervistai nel '59, e come spesso accade ai giovani ero spocchioso e lo trattai male. Me ne scuso ancora oggi, era un grande personaggio». Lucio Dalla: «Povero Lucio. Ci vedevamo spesso, abbiamo fatto anche una canzone insieme (Emilia), ma non siamo mai stati veramente amici. Eravamo molto diversi. Lui non capiva come facessi a stare mesi interi quassù: era vulcanico, frenetico». Battiato: «Abbiamo esordito in tv nello stesso programma, la stessa sera. Poi l'ho incontrato di nuovo al Tenco anni dopo: il più grande barzellettiere che abbia mai conosciuto!». De André: «Era un coetaneo. All'inizio ci studiavamo: fummo i primi a fare canzoni che non parlavano solo d'amore. Poi una volta ci sfidammo a scopa all'Osteria delle Dame: devo avere ancora mille lire firmate da lui dopo una sconfitta. Ma lui dovrebbe averne mille mie... ». Ligabue: «Il caro Liga! I modenesi, ora che si è tagliato i capelli, hanno commentato: "Finalmente si vedono gli spigoli". Perché a Modena dicono che quelli di Reggio e provincia hanno la testa a spigoli. Mi piace perché ha conservato gli stessi amici di sempre, lo stesso mondo». Gaber: «Con lui eravamo veramente amici. Parlavamo di tantissime cose. Avrei solo voluto dirgli, ai tempi de “La mia generazione ha perso”, che no, non era vero, la mia generazione non aveva perso». Guardo i libri sparsi in casa e gli chiedo se davvero internet e la tv hanno impigrito le giovani generazioni rispetto alla lettura: «Un po' sì, ma dipende dalla vocazione alla lettura che uno ha: io se non leggo qualcosa ogni giorno sto male. Difficilmente butto da parte un libro che non mi appassiona: mi sforzo e lo finisco. Oggi compro a scatola chiusa i gialli di Camilleri. Mi interessano i giallisti svedesi, che ci permettono di entrare in una società che ci era sfuggita. Ma io leggo veramente di tutto. Nick Hornby dice che oggi nella letteratura mancano dei fuoriclasse alla Messi o alla Cristiano Ronaldo, ma io credo che salteranno fuori dopo. Difficilmente vengono apprezzati nella contemporaneità: è sempre successo nell'arte». E i fumetti, altra sua grande passione? «Sono un grande appassionato di Tex e delle collane della Bonelli. Ho conosciuto tanti disegnatori: Milo Manara, Scòzzari, Bonvi, Magnus. Ero un grande amico di Andrea Pazienza. Ricordo un'alba al mercato dei fiori con noi due, non proprio lucidi, che ci strappammo letteralmente le giacche per gioco. La notizia della morte me la diede Sergio Staino: ero in un hotel, dopo un concerto». Si ferma, un po' commosso. Poi mi parla della sua passione per Paperino, «ma solo quello disegnato da Carl Barks. Ho la collezione completa». Le Americhe. Quella del prozio Enrico, quella di Paperino e quella di Dylan (prima mi ispiravo ai francesi, tipo Brassens, ma quando ho ascoltato The Freewheelin' è cambiato tutto»), Mi viene in mente che con le sue canzoni ho conosciuto Borges, Roland Barthes, Edgar Lee Masters. Lui ha preso un po' da Dylan, io un po' da lui. Magari vuoi dire questo, essere paralleli.
Da “La Stampa” del 29 novembre 2012:
Francesco Guccini, il cantautore più letterario e meno umbratile, non inciderà più dischi e non terrà più concerti. Scusate il nodo in gola, mentre me lo racconta con occhi disarmati al bar, stringendosi nelle spalle come se ogni altra opzione fosse stata ormai ben esaminata e scartata. Del resto, lancia segnali inequivocabili l'ascolto dell'Ultima Thule, l'album appena uscito, nobile vetta della carriera dell'artista ora alla soglia dei 73 anni. Se può depistare un po' l'inizio di “Canzone di notte n.4”, con teneri ricordi di nonni che invitano in dialetto a spegnere la luce e a dormire, subito insospettisce “L'ultima volta”, un puntiglioso, poetico elenco di ricordi implacabili (“Quand'è stata l'ultima volta che hai sentito tua madre cantare?”). E dopo il lusso antico di due pezzi sulla lotta partigiana e sul 25 aprile, sceglie il sarcasmo “Il testamento del pagliaccio”, una marcia da banda che immagina il corteo di un funerale pittoresco: “Ci vorrebbe un qualche A mia insaputa", uno stilista mago del sublime, una qualche troietta di regime...” Inequivocabile, però, il gran finale su “L'ultima Thule”, da lacrima per i gucciniani: il marinaio che ha doppiato tre volte Capo Horn cede le armi. “Non son più quello e non ho più il coraggio di veleggiare su un vascello morto”, canta con ispirazione accorata. Eppure la voce è vigorosa, rotonda. Eppure la musica è curata come non mai, con cambi divertiti di atmosfere. C'è perfino un uccellino capitato a cinguettare accanto al mulino di famiglia di Pàvana dove l'album è stato registrato con gli amici di sempre, a dare una speranza che le parole del Maestrone spengono subito.
L’album è portentoso, caro Francesco. Ma cos'è 'sta storia del marinaio che si è stufato di navigare?
“E' giunta l'ora di tirare i remi in barca, mia cara. Basta anche con i concerti. A quest'età veneranda si fa fatica, c'è tensione. Mi sento più sereno così”.
Ma se le venisse un'ispirazione se il tappo mentale saltasse?
“Per anni se stavo senza toccare la chitarra stavo male, ora passo mesi senza farlo. Una vita di notti a suonare, ora ho l'agenda piena di nomi di amici che non ci sono più. Resta la scrittura, che mi piace ed è più comoda perché stai a casa tua senza dover dimostrare nulla. E' bello smettere in un momento favorevole: del resto Roth non scriverà più . libri, Tarantino non farà più film. Sono in buona compagnia”.
L’album è una bella botta di emozioni.
“Sono contento perché ho lavorato bene, Flaco Biondini ha scritto tanto. Ho scelto di lavorare al Mulino del mio bisnonno perché la sala d'incisione è catacombale e non si può' fumare. Tra l'altro due miei cugini ci apriranno un Bed & Breakfast.
“L’ultima Thule”è anche il vascello desolato di copertina.
“Dal '72 pensavo che il mio ultimo disco si sarebbe chiamato così. Il titolo è una vaga reminiscenza di letture giovanili, un concetto estremo, un punto d'arrivo finale. La prima strofa l'ho scritta 15 anni fa, ma è stata l'ultima canzone ad essere finita”,
Un brano sulla guerra partigiana, uno sul 25 aprile: per la società senza memoria?
“Pochi sanno, ma se quattro milioni han votato alle primarie, è segno che qualcuno non vuole dimenticare. Poi da Feltrinelli l'altro giorno avrò firmato 500 autografi, tutti per ragazzi”.
Sicuro che non farà più concerti?
“Al 99 per cento”.
Nel brano “Gli artisti” lei si definisce un artigiano. Non le sembra di prenderla troppo bassa?
“Quando suonavo nelle balere, c'era uno con me che aveva un cappotto di velluto spesso nero, con una fodera rosso cardinale. Dissi a sua madre sarta: "Non è un po' troppo?". E lei: "Ma siete artisti". Si abusa del termine. lo mi sento uno che fabbrica oggetti: è mica male saper fare con le mani».
Da “La Repubblica” del 29 novembre 2012:
Adesso che ha visto tutto questo - dati cause, pretesto e attuali conclusioni - Francesco Guccini smette di scrivere canzoni. Ma non c'è niente di avvelenato nell'annuncio del ritiro, anzi tranquillità e ciglio asciutto alla presentazione del suo ultimo (in ogni senso, ora) disco. Che si intitola “L'ultima Thule”, luogo che nelle leggende antiche era oltre i confìni del mondo conosciuto, «e ho sempre pensato che il mio ultimo disco si sarebbe chiamato così. Solo che lo pensavo già quando facevo “Radici”. Era il 1972, e con canzoni come “La locomotiva” e “Il vecchio e il bambino” iniziò a essere uno dei più carismatici cantautori italiani, ricco di ironia folk impegno, disincanto, cultura, memoria, malinconia. “Comporre mi è sempre più difficile, la voglia si è esaurita, quel che dovevo dire l'ho detto. Ed escludo di fare altri tour. E poi smettono Quentin Tarantino, Michael Phelps e Philip Roth, potrò dedicarmi anche io ad altro, no?». Un "altro" che non sarà poi troppo diverso dal comporre canzoni: «Continuerò a scrivere libri». E se involontariamente gli scappasse una canzone? «La darei a Beppe Carletti, che me la chiede da tempo per il mezzo secolo dei Nomadi. Ad altri colleghi ne darei anche ma non ne vogliono: si vede che sono considerato ai margini di un certo mondo». Lo dice senza rimpianti, «anche perché non ne ho. Ho iniziato per caso, solo perché volevo suonare, e poi l'Equipe84 e i Nomadi cantarono “Auschwitz” e “Dio è morto”. Il mio vero desiderio era fare lo scrittore, invece mi son ritrovato cantautore». A 72 anni potrà dedicarsi a tempo pieno al sogno di ragazzo, sembra quasi una sua canzone. In tutto questo ci sarebbe anche da dire qualcosa su “L'ultima Thule”, disco di otto inediti atteso da altrettanti anni. Disco gucciniano che di più non si può. C'è l'impegno politico, con “Su in collina” Quel giorno d'aprile” dedicate ai partigiani e “Il testamento di un pagliaccio”, «canzone di satira politica, e il pagliaccio siamo noi cittadini. umiliati da situazioni sconcertanti" E c’è molto la terra, nel senso delle piccole comunità, dei ricordi, del passato: in “Canzone di notte n. 4” che apre il disco, due cugini gli parlano nel dialetto di Pavana, il paese d'origine dove è tornato a vivere, «e dove da ragazzo ho vissuto gioie infinite, che i giovani di ara non potranno mai provare con le Playstation, tipo rubare le patate, cuocerle su un falò, bere latte appena munto dalle capre». E l'intero album è registrato al mulino di famiglia, che ora è un Bed & Breakfast: «Nell'androne batteria e contrabbasso, in magazzino sax e chitarre, io in sala da pranzo». Pavana è appena oltre il confine fra Toscana ed Emilia, come dire a metà strada fra Renzi e Bersani, e naturalmente Guccini non si sottrae a commentare le primarie: «Bell' episodio di democrazia, anche se sospetto che non tutti i votanti fossero di sinistra. Spero che l'affluenza non cali troppo al ballottaggio. lo 'ho scelto Bersani». Ma l'impressione è che la politica gli scaldi meno il cuore. Questione di età, forse, «sono nato nella prima metà del '900, non ho il telefonino, metto i cd al contrario, non capisco i discografici che usano parole tipo "banner" e "preorder". E se mi metto a contare quanti amici e parenti sono morti non finisco più. Mi piace sperare in una specie di panteismo, l'idea di ritrovarli in un futuro. Avevo anche pensato a una Spoon River di Pavana, poi ho lasciato stare. Insomma alla morte ci penso, ovvio. E in questo disco ne parla la canzone “L'ultima volta”. Oh, ma sia chiaro, “L'ultima Thule” è la mia fine artistica, mica la mia fine e basta».
I TESTI - LATO A
I TESTI - LATO B