Amerigo
IL DISCO
Amerigo, pubblicato nel 1978, è l'ottavo album di Francesco Guccini. Registrato presso gli studi GRS di Milano nei mesi di marzo e aprile del 1978, il titolo del disco deriva dal nome del noto esploratore Amerigo Vespucci, al quale viene accostata la storia del prozio del cantautore, Enrico Guccini.
Da Croniche Epafaniche:
Mio zio Enrico, il fratello minore di mio nonno Pietro, veniva abitualmente chiamato Nerico, con metàtesi dialettale curiosamente usata se lo nominavano in italiano; in dialetto, invece, lo chiamavano Merigo. Penso che pochi sapessero, al di fuori della famiglia, che il suo vero nome era Enrico, e non gli altri due che quotidianamente e con assoluta indifferenza si usavano: Nerico era il nome italiano, che, tradotto in dialetto, deve appunto suonare Merigo. Non c'entra Amerigo, e nemmeno l'America, anche se in America, quella del Nord, o Stati Uniti, lui c'era stato davvero.
Il disco lo descrive lo stesso autore in un testo contenuto nel booklet del 33 giri:
Quando, in diverse occasioni, mi chiedono di parlare delle mie canzoni e del come e perché, di solito rispondo di sentirmi un cantastorie. […]. Un cantastorie che racconta storie di altri che lo coinvolgono e storie di se stesso che possono coinvolgere altri. Questo per il piacere -dovere di raccontare e di esaminarsi-precisarsi raccontando. Così "Amerigo" è una storia, ed è la storia di una vittoria, come succede ogni volta che si può raccontare da lontano e con serenità e trarre da tutto il bene e il male accaduto un sorriso ironico e affettuoso. Proprio per questo, invece, "Eskimo", è la storia di una sconfitta tanto più dolorosa quanto ancora non risolta e che si trascina con questo simbolo verde fra una immaginata maturità incredibilmente lontana e un presente ancora confuso, in cui le cose tardano a delinearsi. Le "Cinque Anatre" non è che una favola corta che vale, anche con la sua “morale” finale, per il solo spazio della sua durata. "Liber Nos" nasce, come idea, dalle “rogazioni” della liturgia dei morti, e da quelle che si cantavano in compagnia per stornare la minaccia di un temporale incombente. Vuole essere una sorta di preghiera laica, più ironica che dogmatica perché vuole essere proprio antidogmatica ed è in senso negativo per potersi aprire a tante altre eventuali possibilità. […] Vorrei dedicare questo lavoro a Enrico Guccini.
Della canzone Amerigo Guccini ne racconta anche in “Un altro giorno è andato” di Massimo Cotto:
"Amerigo", la canzone che dà il titolo all'album è la più bella, completa, finita, ricca di cose e forse una delle più belle che io abbia mai scritto. E' lei che ha trainato l'album, più ancora che "Eskimo", che pure è diventata nel tempo forse ancora più famosa di "Amerigo". […] Mi affascinava da sempre l'idea di una canzone su Enrico, il mio prozio emigrato in America. C'è un confronto continuo tra la sua America - emarginata, di fatica, di sconfitte - e la mia - fatta di miti e immaginazioni, di viaggi di fantasia. Le immagini non si sovrappongono ma restano distanti le une dalle altre: la sua America di lavoro e sangue, fatica uguale mattina e sera, per anni da prigione, di birra e di puttane, di giorni duri, di negri e di irlandesi, polacchi ed italiani nella miniera, di sudore ed antracite; e la mia America provincia dolce, mondo di pace. Avevo già conosciuto la disillusione, dopo il mio viaggio in Pennsylvania, quando avevo capito che non tutto luccicava, ma nella canzone lasciai spazio solo all'America immaginata e mai vissuta, l'America sognata a Pàvana dal mulino e da bambino, l'America che era Atlantide, il cuore, il destino, Life, sorrisi a denti bianchi su patinata, Paperino e Gungadin e Ringo, gli eroi di Casablanca e di Fort Apache. Le immagini non si sovrappongono se non nel finale, quando capisco che quell'uomo era il mio volto, era il mio specchio. Amerigo ero anch'io.
Tra i musicisti che partecipano all'incisione c'è il chitarrista Gianfranco Coletta, fondatore con Ettore De Carolis dei Chetro & Co. e poi componente prima del Banco del Mutuo Soccorso e poi degli Alunni del Sole. Hanno suonato con Francesco Guccini (voce): Deborah Kooperman (chitarra), Vince Tempera (tastiera), Juan Carlos Biondini (chitarra), Pietro Guccini (chitarra acustica), Gianfranco Coletta (chitarra), Ares Tavolazzi (basso), Ellade Bandini (batteria), Dino D'Autorio (basso), Flaviano Cuffari (batteria), Gianemilio Tassoni (basso), Vincenzo Palermo (batteria), Renè Mantegna (percussioni), Paolo Giacomoni (violino, mandolino), Riccardo Grigolo (armonica), Giorgio Massini (flauto).
L'album è stato distribuito da EMI Italia in formato LP, Stereo8, MC e CD.
Edizioni Musicali La Voce del Padrone ha pubblicato gli spartiti di Amerigo.
CURIOSITA'
La foto di copertina è di Piero Casadei, mentre l'immagine di copertina è un particolare della «Charta del Navicare» (1502) conservata alla Biblioteca Estense di Modena.
Tutte le canzoni sono di Francesco Guccini, ad eccezione di Mondo nuovo (musica di Pietro Guccini).
Amerigo è il primo brano gucciniano nel quale è presente l'accompagnamento della chitarra di Juan Carlos Biondini.
L’arrivo di Flaco lo racconta Guccini a Massimo Cotto:
Giorgio Massini partì per il militare, così, quando si trattò di trovare un chitarrista per Amerigo, accettai il suggerimento di Deborah Kooperman, che conosceva un tale di origine argentina e, così almeno mi assicurava, di grande sensibilità. Si chiama Flaco, disse Debby. Io, lì per lì, capii Franco e fui molto sorpreso quando si presentò con il suo vero nome. Flaco significa magro disse lui. In Argentina abbiamo quattro soprannomi di base: Flaco, cioè magro; Gordo che vuol dire grasso; Turco, per chiunque sia a est dell'Italia; e Negro, per chiunque abbia una gradazione di carnagione un po' più scura della norma, dall'abbronzato al negro vero e proprio. Mi piacque immediatamente. Provammo per un paio d'ore, non di più. Era eccezionale. Lo invitai subito a suonare dal vivo.
Nell’album emerge, per la prima volta, la passione per i fumetti di Guccini e in particolar modo di Paperino che lo stesso Francesco definirà, in seguito, “eterno e immortale, ma solo quello disegnato da Barks, che va dal 1945 al 1963”.
RECENSIONI
Da “Star Boy” del 17 dicembre 1978:
“Il disco si chiama “Amerigo” perché c’è una canzone che parla di un mio zio, anzi, prozio. Lui in effetti si chiamava Enrico e veniva chiamato Amerigo non per il fatto dell’America, ma per una trasformazione dialettale del nome. Io immagino lui che emigra, senza mai essere stato né a Bologna né a Pistoia e si ritrova prima a Le Havre e poi a New York, in un mondo diverso e lì penso all'America che lui ha incontrato, contrapposta alla mia America, quella infantile. Amerigo sono anch'io certo perché anch'io sono partito come mio zio da Pavana per fare certe esperienze”.
Da “Nuovo Sound” del settembre 1978:
La forma di "Amerigo" è povera, il contenuto prezioso come può esserlo un oggetto di artigianato ingentilito dal lavoro dell'uomo che opera su materiale umile: il riferimento a "Radici" è evidente, la schietta e vigorosa 'ballata' ritorna prepotentemente, il testo, monumentale, scandisce il tempo di una ritrovata serenità dopo la tensione (condita di una punta di isteria) de "L'avvelenata", il ritratto de il macchinista de "La locomotiva" è esposto accanto a quello di Amerigo l'ormai noto prozio di Guccini (certamente non lo avrebbe mai immaginato, pover'uomo, di godere di tanta fama postuma grazie ad un singolare nipotino).
In questo tuo ultimo disco ci sono due pezzi, "Amerigo" e "100, Pennsylvania Avenue", che, seppure in atmosfere diverse ci riportano a quell'odioso amato 'vuoto mito americano' di cui hai già parlato in varie occasioni. Cosa significa, per te, l'America?
"Quello che ha significato per tutti quelli che oggi hanno quasi quarant'anni come me e cioè avere cinque anni nel 1945, ricordare che le prime cose che gli occhi hanno iniziato a vedere sono stati i carri armati americani, leggere Steinbeck, Hemingway da grandicelli quando da piccolini si era portata sul petto una stella di sceriffo. Amerigo queste cose le dice, ma le dice da immigrato, da uomo senza cultura che va e vive determinate realtà di lavoro non avendo il tempo e gli strumenti adatti per andare al di là del puro raccontare. “100, Pennsylvania Avenue” è una storia in un certo modo parallela in quanto parla delle impressioni tratte dal mio viaggio in America, evidentemente fatto in condizioni diversissime, con la perfetta cognizione di uno scontro tra realtà e culture diverse. Lo scontro ci fu davvero: io andai negli Stati Uniti per una ragazza che sarebbe dovuta tornare con me in Italia ma che non venne poi per mia scelta, dal momento che capii che una convivenza sarebbe stata impossibile, umanamente inconciliabili come eravamo. Io parlo quindi spesso dell'America come fatto condizionante la nostra gioventù, ma, attenzione, quando parlo di 'vuoto mito' non faccio una autocritica del tipo 'guarda che scemi che eravamo', parlo di vuoto nel senso di non verificato, dell'impossibilità di stabilire quanto ci fosse di vero nel 'made in U.S.A.' Oggi, che fortunatamente siamo tutti più intelligenti, non ci lasciamo più abbindolare ed un John Travolta passa inosservato... Scherzi a parte, credo che dal dopoguerra ad oggi ogni espressione occidentale faccia capo, più o meno rigidamente, all'America. Guarda la musica, ad esempio: a parte la ventata di europeismo dei Beatles (se vogliamo anch'essa informata poi a moduli americani) mi sembra non ci sia stato altro".
Esce un tuo disco, le solite critiche: "scrive dei bellissimi testi, perchè non si fa fare le musiche? ". Tu cosa rispondi?
"Rispondo che non mi interessa fare delle belle canzoni. L'espressione che sento più mia è la ballata, che non necessita di strutture complicate. Il mio impegno quindi è nel fare delle buone ballate: ad esempio, “Amerigo” la trovo bellissima, così imponente, così piena di cose... Ma questo è un mio giudizio, naturalmente!".
“Eskimo” è una delle poche canzoni (o 'ballate', come preferisci) che, parlando di realtà giovanili passate, non faccia riferimento stancamente ed in modo pseudo leggendario al '68. Si va a qualche tempo prima, al '63-'64, gli anni di un antico conformismo un tantino pretenzioso che tu critichi ma allo stesso tempo difendi con una punta di malcelato orgoglio...
"Vedi, è chiaro che ci sia una sorta di bivalenza emotiva verso il mio passato: esiste una critica, ed è dura, ma c'è anche tanto affetto verso quelle situazioni, tipiche dell'epoca, vissute con slancio ed ingenuità. Non bisogna dimenticare poi che “Eskimo”, in fin dei conti, è pur sempre una canzone d'amore".
Da “Popster” del 1978:
Sull'America reale - o neo realisticamente ricostruita - di Enrico-Amerigo, si innesta l'America fantastica e bugiarda di Francesco, vissuta attraverso gli stereotipi di cinema, fumetti e fotografie: «L'America era Atlantide, l'America era il cuore, era il destino, l'America era ‘Life’, sorrisi a denti bianchi su patinata, l'America era il mondo, sognante e misterioso, di Paperino». Chiarimento su quest'ultimo verso e piccolo ricordo personale: Guccini è un collezionista appassionato di fumetti (una «radice» non secondaria) ed ha collaborato con l'allora quasi esordiente Bonvi (più tardi creatore di «Sturmtruppen) alla stesura di sceneggiature spiritose e intelligenti; una sera di qualche anno fa ci incontrammo ad una cena un po' scoglionata, scoprimmo la comune passione e cominciammo a parlare delle storie di Paperino disegnate da Carl Barks, l'inventore delle più belle avventure di Paperino, non quelle quotidiane e frustrate ma quelle romantiche, appunto «sognanti e misteriose», di ampio respiro: le sette città di Cibola e l'Eldorado, Shangri-La e Atlantide e via dicendo; la cosa si trasformò in una specie di gara a chi ricordava più storie e personaggi inventati da Barks: vinse lui, anche se di poco, con una domanda sul nome degli abitanti del centro della terra, esseri rotondi che si divertivano a creare terremoti che mettevano in pericolo il deposito di Paperone (per la cronaca: si chiamavano Terrini e Fermini); fine della parentesi personale. Amerigo torna a casa da vecchio, «due soldi e giovinezza ormai finita», e l'adolescente Francesco, «sprezzante come i giovani», lo ignora, non lo capisce. Solo molto più tardi realizza che lui ed Amerigo, in fondo, sono la stessa persona, con lo stesso destino della partenza dal paese, delle esperienze in un mondo completamente estraneo a quello contadino, con la stessa voglia di tornare, da vecchio, al paese. E poi c'è l'America oltre «Life» e Paperino, vissuta da Francesco adulto in prima persona, e non solo attraverso gli occhi di una sua fiamma americana, immaginata oggi a portare avanti "i miti Kennedyani e a far scuola agli indiani, amore e ecologia lassù nel Maine». Un mese di America e di delusioni, molto meglio il sogno dell'adolescenza. Ma da allora sono passati tanti anni, le cose nel ricordo si sfumano, la sconfitta di allora è guardata con distacco, la vittoria dell'America Reale e della Donna Americana non brucia più, anzi appena filtrato dall'ironia, c'è dell'affetto: «Io credo che sappiamo che è diverso, se le cose sono state poi più amare, le accetti, tiri avanti e non hai perso, se sono differenti dal sognare perché non è uno scherzo saper continuare... così ti canto ancora, in questa casa mia che sai e non sai». (100, Pennysilvania Ave). Sulle note di copertina "Le cinque anatre” è presentata come "una corta favola che vale, anche con la sua ‘morale’ finale, per il solo spazio della sua durata», e non si può condividere. Per la cronaca, l'idea delle “cinque anatre” viene da un canto di prigionieri siberiani letto da Guccini anni fa e dimenticato fino al momento di entrare in sala, quando, ahimé, se l'è ricordato. E, come le “anatre”, “Libera Nos Domine” conferma che il “fascino discreto” del cantastorie viene ormai meno quando non racconta di sé; dura quattro minuti e mezzo ma sembra aver detto tutto nel primo minuto, è ispirata ad una preghiera chiamata rogazione, con la richiesta continua e ossessiva di essere liberati: dall'inferno ma anche, nelle versioni contadine, dalla grandine quando scoppia un temporale. Guccini prega, e prega che tutti noi siano liberati da calamità varie tipo diossina coloranti e generali pazzi, dagli imbecilli d'ogni razza e colore, dagli intolleranti, falsi intellettuali, giornalisti ignoranti e via salmodiando; alla cupa meccanicità ripetitiva della rogazione era preferibile lo sberleffo sanguigno dell’«Avvelenata», che almeno sparava contro gli stessi bersagli senza suonare la campana a morto. Oltre che con la messa funebre, Guccini contrae un altro debito col Guccini minore, Piero, di cui canta una canzone scritta vari anni fa, «Mondo nuovo», modificandone il testo ma lasciando invariato il tema originale, ispirato al "Brave new world” di Huxley:"E corre l'uomo confuso... verso una nuova realtà che non capirà mai, fra entità sconosciute e computers, che non capirà mai, fra le schede cifrate e le città, che non capirà mai… nel mondo nuovo che noi non vedremo mai». Ma il momento di maggiore sincerità e convinzione è in «Eskimo», il testo che forse meno di tutti si adatta alla musica, una musica costruita per convenzione più che per necessità: le parole, lette senza ascoltare il disco, arrivano direttamente e trasmettono quello che la musica maschera o sdrammatizza in un tentativo di pudore. E questa ennesima storia intima, dolorosa e personale, la si può leggere e riconoscere senza imbarazzi, o noia, o soggezione. Senza sentirsi, finalmente, dei guardoni (volontari o involontari, compiaciuti o riluttanti) della vita privata di Francesco Guccini.
I TESTI - LATO A
I TESTI - LATO B