Ieri è venuto a mancare Piergiuseppe Caporale, per gli amici e colleghi semplicemente “Peppe”. Caporale è stato uno dei giornalisti e critici musicali italiani più seguiti e apprezzati degli ultimi quarant’anni. Nato a Torino, ma romano di adozione, nel corso della sua lunga carriera ha collaborato con diverse testate, tra cui “Nuovo Sound” e “Ciao 2001”.
“Ciao, amico mio. Compagno di tante piacevoli interviste, di tournée e di concerti, e di avventure fra Roma, Pavana e l’Avana. Un abbraccio con grande affetto, Pepiton”.
Con queste parole, Francesco Guccini, ha voluto salutare Piergiuseppe Caporale, appresa la notizia della sua scomparsa.
Pubblichiamo, in omaggio a Peppe, questo articolo su Francesco Guccini tratto dalla rivista “Ciao 2001” del 9 dicembre 1984.
FRANCESCO GUCCINI, IL MAESTRO SULLA VIA DEL WEST
Che da un episodio, anzi da un avvenimento come quello del giugno scorso, sia venuto fuori un album, era da prevedere. Soprattutto trattandosi di Francesco Guccini, l’ultimo – è indiscutibile- dei vati della canzone d’autore: da una riflessione affrettata ci è venuto in mente che è anche l’unico che, finora, ha resistito alle blandizie dei vari Discoring, Domenica In, Fantastico eccetera dove, ormai, sono sempre presenti i componenti del Gotha (si fa per dire) del settore (anche De Gregori ci è cascato, solo per un paio di volte, però). Che, poi, ancora, un album doppio potesse avere il subitaneo successo che sta avendo «Fra la via Emilia e il West”, sinceramente non era prevedibile. Anche in considerazione del fatto che l’impegno è ormai una merce abbastanza obsoleta, che la poesia fa venire il mal di testa, che l’onestà sembra raramente premiata (tantomeno può premiarsi da sola), ma, soprattutto, che la genuinità è ormai affogata dal look a tutti i costi. Facciamo, però, un po’ di conti. Ovverosia diciamoci cosa può provocare l’ascolto di queste diciotto canzoni che non soltanto rispecchiano forse il meglio del gigante tosco-emiliano, ma anche il meglio della poesia messa in musica degli ultimi vent’anni. Parliamo per il nostro paese, naturalmente: se, però, la lingua lo permettesse, siamo anche certi che le canzoni di Guccini troverebbero il loro posticino accanto a Lee Masters & C. Nell’album dal vivo sono state privilegiate le canzoni di «Radici». Ed è anche giusto se si pensa che proprio quell’album è stato quello che ci ha fatto conoscere appieno Francesco, magari scoprendo che anche altre pietre miliari come «Auschwitz», «Dio è morto» ecc. erano state scritte da lui.
Chi, non soltanto perlomeno trentenne, non piomba in ricordi ch’erano pieni di speranza, di voglia, di tristezza allegra e di allegria triste, magari al solo ascolto di «Piccola città»? Ma non è così semplice. O, meglio, non è soltanto questo. Non è la solita fregnaccia affermare che la nuova confezione (per carità non vi spaventate, niente fronzoli e orpelli), unita ad una grossa maturità vocale (Guccini è un po’ meno ingoiato, anche se forse un po’ più nasale), conferisce a tutte queste canzoni, da chi scrive (e non soltanto) ascoltate e riascoltate più volte, un fascino nuovo.
C’è anche da dire che i musicisti (fra i migliori degli italiani) suonano da talmente tanto tempo con Francesco da essere cresciuti psicologicamente nell’elaborazione progressiva delle canzoni. Si tratta come al solito dell’impassibile Vince Tempera, tastierista ed arrangiatore di grande valore (anche in quelle che, più o meno meritatamente, possono essere definite marchette); del ieratico Ares Tavolazzi, uno che dorme insieme al suo basso elettrico e che lo suona come pochi al mondo (non è un’esagerazione del dolcissimo Ellade Bandini, la cui tranquillità è un contrasto continuo con il suo
spirito d’invenzione e la sua metronomicità; di Juan Carlos -Flaco- Biondini, un chitarrista poliedrico e sensibile che, se non amasse alla follia la tranquillità, avrebbe ormai una dimensione internazionale (ascoltare per credere il suo disco di milonghe inciso qualche anno fa); di Antonio Marangolo, sassofonista dalla voce personalissima, in continua crescita. È però forse inutile dilungarsi sull’analisi dei due dischi brano per brano: un po’ perchè li conosciamo bene, un po’ perché che scrive ne ha ormai straparlato. AI lettore basti sapere che, in sostanza, è uno dei pochi veri live esistenti, che la confezione nuova di cui si parlava prima è dovuta soltanto ad una maturità musicale di gruppo (nonchè, da parte di Guccini, alla perdita finalmente – di quella specie di paura per la musica, fino a qualche anno fa considerata un puro accessorio). Tutto ciò conferisce alle canzoni un carattere non di novità vera e propria bensì di tranquillità e scorrevolezza che a volte, nel passato, sembrava mancare. Insomma sono diciotto canzoni che si fanno ascoltare tutte d’un fiato, ad occhi chiusi, a metà fra i ricordi provocati e l’immaginazione tesa a figurarsi il gigante barbuto dagli occhi buoni che come in ogni suo concerto, fra una canzone e l’altra, si prende in giro, sdrammatizza immediatamente quanto appena cantato, ironizza sulla serietà istituzionale e sgargarozza il suo rosso da corsa. Considerata ormai l’impossibilità fra lo scrivente e Francesco di dirsi qualcosa che non si siano già detti, siamo costretti a saccheggiare alcune dichiarazioni recentissime del cantautore. Il tutto a surrogare che si cresce e si cambia, ma soltanto nell’ approccio e non nella sostanza. E poi, come di consueto con Guccini, sempre col beneficio del dubbio.
GUCCINIANA
Un po’ di storia (a proposito di ricerca)…
Ricerca è una parola un po’ grossa: voleva dire, per esempio, cadere sulla strada di Damasco ascoltando un disco di Brel che si chiamava «Ne me quitte pas». Ricerca voleva dire ascoltare contemporaneamente gli esperimenti dei Cantacronache, e, di conseguenza, scoprire che c’era la possibilità di una canzone che non fosse la canzonetta ma contemporaneamente fosse ricca di comunicazione. Non di messaggi, ma proprio di’ possibilità di comunicare… riscoprire anche le canzoni del passato. Scoprire, ad esempio, che «Signorinella pallida» non era poi quella puttanata che noi pensavamo fosse, scoprire anche la grande tragicità, o la grande ilarità che poteva procurare la canzone del ventennio… scoprire, per esempio, che durante il ventennio c’erano le canzoni sull’incremento demografico fico … scoprire il primo teatro alternativo di Leydi e di Fo… scoprire la canzone americana (Dylan & C.)… scoprire di aver voglia di continuare a fare canzoni di questo tipo.
A proposito dei meccanismi che danno vita alle canzoni…
Una canzone nasce da un’idea, un’idea di qualunque tipo, un’idea che mi colpisce, che mi piace. Non è quindi un’idea cosiddetta da lampadina accesa, ma più semplicemente una cosa vista, una cosa letta, un avvenimento accaduto che fa scattare il meccanismo. Nei primi tempi mi mettevo lì e giù una sbrodolata tremenda per cui non so, «La locomotiva» che dura nove minuti è nata in venti minuti… un treno vero e proprio. Adesso, invece, prima lascio un po’ posare la canzone: accarezzo l’idea, ogni tanto ci penso… e poi c’è il giorno particolare in cui, ripensandoci meglio la canzone acquista una sua trama (penso sempre alla canzone come ad una storia da raccontare, che ha un inizio ed una fine). Poichè io non scrivo mai prima il testo e poi la musica, acquista da sè un andamento musicale particolare a seconda della canzone…
A proposito dell’evoluzione musicale di Guccini.
Non soltanto per pudore ma proprio per estrema lucidità, ho sempre affermato di non essere un musicista: se fossi un musicista farei il musicista, se fossi un poeta farei il poeta. Io sono uno che fa delle canzoni: detta così sembra una celebre frase del signor La Palisse. Spesso ci si fa delle illusioni: la canzone, nel bene e nel male, è quella che è, ha uno schema, tutto sommato, limitato… è molto difficile fare degli esperimenti con la canzone, quindi già diffidò quando mi si parla di avanguardia musicale intesa in senso di canzone. La canzone è una piccola storia da raccontare, e, al massimo, si può vestire o meno con vesti un pochino più orpellose, più carica di fronzoli anche in maniera sobria, oppure scegliere una strada ben definita. Si può fare una ballata e si può fare una canzone: la ballata ha uno schema ben fisso, parte con una strofa che va avanti fino alla fine identica. Perchè? Perchè in quel momento la narrazione, la storia, è molto più importante del momento musicale…
A proposito del significato della parola cantautore nel 1984
A parte la mania di etichettare per forza (mania giornalistica imperante) il cantautore è colui che si fa le canzoni e se le canta. Quindi se le interpreta, dando loro quella carica particolare anche con la faccia, con le mani… la canzone diventa, in un certo modo, anche un momento teatrale. Essere cantautore oggi è la stessa cosa di vent’anni fa: le storie forse sono cambiate, però si possono anche raccontare le stesse. L’importante è che ci sia la volontà narrativa, ovverosia il piacere di chi racconta e di chi sta ad ascoltare: non importa nemmeno che questo racconto si sia già ascoltato tante volte… è un po’ come la favola della nonna, che era sempre la stessa, ma si chiedeva sempre quella, perchè c’era un piacere della parola, un piacere della narrazione. E poi è importante che quella figura che sta lì in cima, non abbia in questi vent’anni famosi cambiato mille strade, presentandosi magari coi capelli gialli e col sedere rosa… Inoltre va ricordato che il cantare delle storie è il mestiere più antico del mondo (dopo quell’altro, naturalmente): non abbiamo scoperto niente e nessuno scopre niente…
Perchè comunicazione e non messaggio…
Per me chi ha un messaggio da comunicare è uno che è cascato dentro ad una verità e vuole spargerla ai quattro venti. lo, fortunatamente o sfortunatamente, non sono mai caduto dentro ad una verità: non ho quindi che dei dubbi da proporre (come ciascuno di noi). Nelle mie storie ci possono essere dei dubbi, delle proposte, mai dei massaggi: il messaggio come tale è di solito trasmesso dalla canzone politica che, in genere, non mi piace (salvo quasi esclusivamente Fausto Amodei). La canzone politica è dogmatica, trasmette soltanto uno slogan, non ti dà nè da pensare nè da discutere: sotto questo aspetto è un po’ come l’inno della squadra del cuore… non ci piove, insomma!
Troppo ancora ci sarebbe da riportare: tutti argomenti la cui attualità è rinfrescata proprio da «Fra la via Emilia e il West». In ogni caso tutti dimostrabili dall’ascolto delle nuove vecchie canzoni, orientate, nella confezione, in ogni direzione da «Radici» ci sono «Il vecchio e il bambino», «Canzone della bambina portoghese», «Piccola città», «Incontro» e «La locomotiva». Fanno parte, invece, de «L’isola non trovata» oltre a quella omonima che dà il titolo al disco, «Asia», «Il frate» e «Un altro giorno è andato».
Da «Via Paolo Fabbri» «Il pensionato» e «Canzone quasi d’amore» mentre a «Metropolis» appartengono «Venezia» è «Bologna». Da «Folkbeat n. 1», il primo disco ufficiale di Guccini, viene «Canzone per un’amica» (in quella sede intitolata «In morte di S.F.»); da «Due anni dopo», «Vedi cara»; da «Stanze di vita quotidiana», «Canzone delle osterie di fuori porta»; da «Amerigo» c’è la più bella, «Eskimo»: da «Guccini» c’è «Autogrill».
Insomma una vita dal vivo, forse un bilancio, forse ancora un modo per ricominciare da capo (come se ce ne fosse bisogno).
Piergiuseppe Caporale