IL CANTAUTORE, SPECIALE TENCO 2023 – CANZONI DA INTORTO

Ecco un disco necessario. Quasi a prendere le distanze dal passato cantautorale, l’ha registrato sotto la sapiente direzione di Fabio Ilacqua e non con gli storici collaboratori, con i quali ha comunque collaborato in Ronin, disco d’esordio de I Musici.

Inciderlo è costata a lui molta fatica e altrettanta pazienza al tecnico del suono, però il pregio dell’opera non sta nella performance vocale: l’età e gli affanni respiratori gli hanno tolto la voce d’antan, ma l’inconfondibile personalità timbrica conferisce comunque autorevolezza all’operazione.

Quelle da intorto sono le canzoni della seduzione, cantate con la chitarra tra amici nelle osterie bolognesi negli anni ’60. Si cantava di tutto: per gli esclusivi tête-à-tête c’era il sanguigno repertorio degli chansonnier francesi (un peccato che la volontà di non apparire mai nelle vesti di autore abbia sottratto la sua traduzione di Amsterdam di Brel). Poi c’erano le meno tumultuose ballate folk d’Oltreoceano, quelle dylaniane in testa, di cui la locale Johns Hopkins University fungeva da pusher, mentre per i riti orgiasticamente collettivi e corali, a lui però estranei, c’erano i consolatori repertori cileni oppure o mare nero, mare nero, mare né...

Ma l’intorto del giovane Guccini non è solo quello, animato da evidenti finalità, indirizzato alle ascoltatrici sedute accanto, c’è pure quello che si rivolge a un pubblico più allargato nel ruolo, che sempre gli è stato caro, del compiaciuto divulgatore di repertori poco noti e tutti da scoprire.

A sessant’anni di distanza, e con la riproposizione dell’identica miscellanea canora, torna sulle proprie vestigia. Lo fa con un disco dal titolo leggero e divertente, ma dall’ambizioso obiettivo: contribuire, alla conservazione di un edificio non molto stabile e usurato, quello di una memoria storica capace di suggerire anche l’analisi critica.

Del resto, la stessa canzone d’autore è costruita sulla memoria: tra i ’60 e i ‘70 è cresciuto almeno il novanta per cento delle pietre miliari di questo genere e qui sono artisticamente nate molte figure esplose in seguito, dai Dire Straits a Vasco Rossi, da Renaud in Francia a Joaquín Sabina in Spagna.

L’unica canzone non italiana, e di autore ignoto, presente nel disco è Greenleeves, risalente al XVI secolo, una dei motivi più conosciuti del folklore inglese su cui Ralph Vaughan Williams ha composto una celebre Fantasia. Usata nei film e nei commenti sonori di immagini, `viene eseguita anche nelle aree più marginali della musica celtica, dalle Orcadi alla Galizia (vedi i Milladoiro). Francesco la canta forse perché parla di un pretendente respinto e si sa che, cresciuta col mito di Ettore, la colta ascoltatrice d’osteria è particolarmente sensibile ai temi della sfiga: sofferenza, addio e abbandono la esaltano permettendole di allentare le resistenze nei confronti dell’intortatore canoro. È un atteggiamento che, in un’opera di rigorosa documentazione, lo scrupoloso Francesco non poteva trascurare.

Se in Radici, scritto con un piede a Pavana e l’altro in via Paolo Fabbri, indagava sulle proprie origini (in lui mai disgiunte) biografiche, storiche e culturali, con Canzoni da intorto Guccini torna sui suoi passi per indicare, lui maestro riconosciuto e celebrato, quali modelli stilistici l’abbiano influenzato e a quali siano i rabdomanti di sorgenti poetiche cui si è abbeverata parte della sua generazione. Da notare che, se la metà dei brani non sono in lingua italiana, nessuno è però in bolognese.

Il punto di partenza è la Torino del 1958 (dove, nello stesso anno, nasceva Eri piccola così di Buscaglione) quando prende il via l’esperienza di Cantacronache. Ne faceva parte Fausto Amodei, da Guccini considerato il grande maestro e da lui già omaggiato con I fichi. Perciò il disco si apre con Per i morti di Reggio Emilia dove la lucida analisi politica si fonde mirabilmente con i toni barricaderi. Umberto Eco sosteneva: “è l’unica canzone che per forza di trascinamento può stare alla pari con La Marsigliese”.

Indiretto omaggio alla città, c’è Barôn Litrôn, canto tradizionale in piemontese tramandatoci dall’etnomusicologo Costantino Nigra, nobile piemontese, diplomatico, politico, filologo, poeta e storica figura d’intortatore: giovane, colto e avvenente plenipotenziario di Cavour alla corte di Napoleone III con il compito di conquistarne i favori, si accattivò le simpatie personali dell’imperatrice Éugenie e infilò la contessa di Castiglione, sua complice, tra le lenzuola del marito. Il canto narra della morte, nel 1755, del barone svizzero von Leutrum, di religione protestante, comandante delle truppe savoiarde e governatore di Cuneo da lui vittoriosamente difesa contro l’assedio franco-spagnolo di undici anni prima (Nigra lo tramanda proprio con il titolo Il barone di Leutrum).

All’osteria delle Dame, Francesco interpretava questo canto con la preziosa armonizzazione di Giorgio Massini, con cui produsse anche il disco d’esordio dei Viulan, cantori dell’Appennino tosco-emiliano. Massini fu chitarrista al suo fianco, presente fino a Paolo Fabbri 43, poi lasciò il posto a Flaco Biondini per andarsene a lavorare in banca a Milano (e qui collaborò con i Pan Brumisti nel ruolo di arrangiatore).

Ci sono poi due canti storici dell’anarchismo italiano: la prima è la celeberrima e mesta Addio a Lugano di Pietro Gori, scritta nel 1895 in occasione dell’espulsione dalla Svizzera degli anarchici italiani e, abbastanza curiosamente, sull’aria di un motivo dell’epoca intitolato Addio a Sanremo. È nota anche al di fuori dei patri confini e Guccini la cantava già nelle ultime fasi della sua attività concertistica (in questa rassegna Tenco che celebra Jannacci, va segnalata l’interpretazione, reperibile in You Tube, di un quartetto formato da Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Otello Profazio e Lino Toffolo).

La seconda, non altrettanto nota, è Nel fosco fin del secolo morente, conosciuta anche come Inno della rivolta, scritta due anni prima da Luigi Molinari in occasione delle sommosse in Lunigiana.

L’impetuosità verbale, il tono tribunizio e l’atteggiamento gladiatorio sono il frutto del clima di contrapposizione e della personalità eruttiva del giovane Molinari che, come Pietro Gori, fu uno degli avvocati difensori degli anarchici nei tribunali italiani. La veemenza rivoluzionaria è quindi il prodotto di un’esperienza interiore autentica e il vigore primitivo dei suoi versi sa trasmettere senza raucedini tutto l’entusiasmo della lotta. Per averli scritti, Molinari fu condannato a 23 anni di reclusione, ridotti a sette in appello. Sotto l’incalzare delle veementi proteste giunte anche dall’estero, fu poi rilasciato con un indulto. Ecco le radici storiche del Premio Yorum…

Sempre legata all’esperienza di Cantacronache c’è poi Tera e aqua (Polesine) del 1963 che racconta una terra in cui l’inondazione, proveniente dal Po o dal mare, è sempre in agguato. Il testo è di Gigi Fossati e la musica di Sergio Liberovici, musicista e ricercatore torinese allora marito di Margot, alias Margherita Galante Garrone, che fu la prima a interpretarla (fu poi ripresa da Daisy Lumini e da due Premi Tenco: sia Giovanna Marini che Gualtiero Bertelli).

Ci sono un paio di canzoni con testi di Franco Fortini, ambedue del 1960. Non appartengono all’esperienza di Cantacronache, pur se a cooptare il poeta nel mondo della canzone fu, nel 1958, proprio il gruppo torinese. Fuggendo il classico pericolo dell’intellettualismo, Fortini ha saputo adattarsi al linguaggio musicale meglio di tutti i poeti italiani (peraltro pochissimi) che si sono direttamente prestati alla difficile arte dello scrivere canzoni. La prima, che indaga sulla ripetitività usurante di un rapporto di coppia, è Le nostre domande, musicata e cantata proprio da Margot. La seconda è la nota Quella cosa in Lombardia, mirabilmente musicata da Fiorenzo Carpi per la voce di Laura Betti. Fece scalpore quando apparve nell’Italia democristiana non adusa a trattare pubblicamente il tema dei rapporti sessuali prematrimoniali. Con il taglio della terza strofa fu ripresa nel live, di quattro anni dopo, Enzo Jannacci in teatro.

Questo ritratto domenicale di periferia milanese indica come la realtà urbana del capoluogo lombardo abbia costituito il motore principale della canzone d’autore degli anni Sessanta e infatti Guccini si cimenta con tre canzoni in dialetto meneghino. La prima è  El me gatt, scritta da un ventiduenne Ivan Della Mea, morto nel 2009, cantore del proletariato della città. Ritratto di un teppista, fu la canzone che lo segnalò al pubblico venendo presto ripresa dai Gufi, da Nanni Svampa e Bruno Lauzi. Di Ivan, Alessio Lega ci racconta tutto nel possente libro La nave dei folli.

C’è poi Ma mi, erroneamente ritenuta da molti sia un canto della Resistenza (è invece un canto della mala), sia un brano tradizionale (fu composta dal regista teatrale Giorgio Strehler, triestino di nascita, in collaborazione con il musicista milanese Fiorenzo Carpi). Scritta nel 1959 per Ornella Vanoni, fu poi ripresa da Enzo Jannacci (e nello stesso anno i due autori ripeterono l’operazione in romanesco con Le mantellate, anch’essa creduta un canto popolare).

Il disco si chiude con uno dei capolavori compositivi del duo Fo-Jannacci, l’epica e drammatica Sei minuti all’alba. Con il ritratto di un partigiano nell’imminente vigilia della fucilazione, la riproposizione offre in contemporanea l’abbinamento della memoria musicale a quella storica. Composta nel 1966, è il brano meno vecchio di questa operazione di recupero e qui Guccini dà doverosamente fondo a tutte le residue energie vocali per offrirci un’interpretazione di alto livello.

Canzoni da intorto è un disco arrangiato con molta efficacia, di cui si sentiva la mancanza e si spera che l’esempio venga seguito da altri.

Nel frattempo, restiamo in attesa del secondo capitolo della saga. Il n.2 di Canzoni da intorto dovrebbe uscire prossimamente.

 

Articolo di Sergio Secondiano Sacchi tratto da Il Cantautore n.48 – Numero unico del Club Tenco Sanremo in occasione del Tenco 2023.

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