Ai tempi della pandemia, una figlia chiama il padre su Skype. Lui è Francesco Guccini. Insieme, ragionano su che cosa resterà di questi tempi incerti. Perché «ciò che conta di più non è tanto avere sempre delle risposte, ma farsi continuamente delle domande»
È su Skype che ci incontriamo. Un guizzo tecnologico notevole per mio padre che non ha mai ceduto nemmeno al richiamo del cellulare, anche se, bisogna dirlo, non è lui a far partire la chiamata ma sua moglie Raffaella. Avrei desiderato incontrarlo di persona per parlare con calma, magari passeggiando un poco, lasciando che le parole potessero prendere le strade che volevano e, invece, abbiamo dovuto affidarci al computer per forze di causa maggiore.
È lui a chiamarmi ed è puntualissimo, come sempre. Mi appare sorridente sullo schermo del computer dalla stanza dello studio di Pàvana. Quella stanza io l’ho sempre frequentata pochissimo, se non a volte, da bambina, per disegnare sulla scrivania dove lui ora ha appoggiato il computer.
Mentre mi saluta ricordo che, proprio in quella scrivania, c’era un cassetto che ora non so cosa darei per aprire e che una volta conteneva tesori di altri tempi: vecchie diapositive di un’estate a Forte dei Marmi, matite colorate, penne, una lente di ingrandimento, un grande blocco a righe rosse di una tipografia litografia di Porretta Terme su cui disegnavo, adesivi per incollare le foto agli album, fogli sparsi, appunti, lettere e cartoline. Rientro dai ricordi e gli occhi mi cadono sulle sue mani appoggiate, quasi intrecciate, i polpastrelli della mano destra picchiettano ritmicamente sul tavolo, quasi un metronomo, come se scandissero le sue parole.
FG «Pronto? Ciao, mi senti?»
TG «Ciao babbo!».
Rispondo a quel vocione dalla erre arrotata che mi fa sentire subito a casa ma non lo ascolto davvero, la mente prende a vagare. Noto che ha le guance rubizze e vorrei tanto abbracciarlo e sentire quel suo odore così particolare, difficile da descrivere, un misto del suo profumo (spesso note di legni e resine) e di pulito, di sapone e di mele tagliate. Penso che comunque, anche se fossi lì, non potrei avvicinarlo e, grazie a questo pensiero, la nostalgia che mi è presa si placa un poco. È davvero tanto tempo che non ci vediamo, mesi, anche a causa di un virus che ha aumentato le distanze non solo a noi ma a molti. Conversare così è difficile. Dentro quel «ciao» che io gli dico sterile e veloce, sono racchiusi giorni interi, storie, libri che ho letto, amici incontrati, dubbi, battute, pianti e barzellette che vorrei raccontargli, ma che è impossibile estrarre così, in un solo fiato; un’intera quotidianità che non ci è più concessa e che non può essere riassunta in un battito.
La sua assenza è per me così pesante da diventare quasi fisica, tangibile.
FG «Ecco, dimmi», mi dice gelandomi mentre il gatto saltella tra la scrivania e lo schienale della sua poltrona. Il gatto è un gatto rosso chiamato «Stagnadino» (Stagnadone in dialetto modenese vuol dire massiccio), che gli regalai qualche anno fa quando la mia gatta Frida fece i cuccioli perché desiderava un gatto maschio. «Basta femmine anche tra i gatti».
TG «Dimmi». Facile a dirsi «Dimmi». Io pensavo più a una conversazione spontanea, ma così a freddo parlarsi diventa complesso e quasi le parole incespicano tra i denti nel tentativo di condensare argomenti a cui penso da giorni e che di un tratto quasi non ricordo più. «Babbo, non è strano parlarsi così tramite uno schermo? Io e te poi? Proprio tu che quando ero piccola mi chiamavi ogni volta che dovevi mettere un cd nel computer o nello stereo?», gli dico.
FG «Eh sì, ma è una delle conseguenze dei cambiamenti di questa strana situazione legata alla pandemia».
TG «Pensi che quando questa epidemia si allontanerà, torneremo quelli di sempre?».
FG «A livello lavorativo forse certi nuovi comportamenti resteranno, e i cambiamenti li stiamo verificando noi stessi in questo momento. Il fatto che io e te parliamo attraverso Skipe, cosa che non abbiamo mai fatto prima, ne è un esempio. C’è sempre più insegnamento a distanza, una cosa impensabile anche solo un anno fa. I ristoranti sono stati costretti a chiudere a certi orari e si sono reinventati con il trasporto a casa di cibo».
TG «Il delivery, babbo», sottolineo, anche se non sono una grande fan dei termini inglesi.
FG «Va be’ hai capito. Per continuare, io non penso che questa situazione ci trasformerà in meglio come dicono alcuni. Sono abbastanza cinico da questo punto di vista. Quest’estate, che sembrava quasi che l’epidemia fosse finita, la gente è tornata quella di prima. Ci si trovava a parlare, a mangiare fuori; magari non c’erano più gli abbracci, c’era una certa diffidenza, non ci si dava la mano e si stava lontani, ma una certa socialità è tornata. Si pensava che la virulenza fosse diminuita di molto e, in un certo senso, ci si era già dimenticati di ciò che era successo».
TG «Questo virus ci ha costretto però a rallentare, babbo. Il tempo era, ed è, come ovattato, come quando cade la neve e tutto è più calmo e silente. Il virus ci ha ricordato che possono esistere tempi più lenti, ci ha ricordato che esistono confini, ci ha fatto ridefinire il concetto di distanza e ci ha obbligato a sederci e ascoltarci, cosa che forse, in molti, non facevamo da tempo. Siamo in una situazione di stallo, di attesa, che mi ricorda moltissimo una tua canzone, Shomèr ma mi-laillah (Sentinella a che punto è la notte?), tratta da un versetto del profeta Isaia. La sentinella risponde: “La notte sta per finire, ma l’alba non è ancora iniziata; tornate, domandate, insistete”. Siamo tutti in stallo, in attesa di capire cosa succederà, ma in questo caso non possiamo farci domande. Restiamo solo in balìa degli eventi e forse ci ricorderemo a lungo di questo momento».
FG «Vedi Teresa, questa situazione mi fa venire in mente un parallelo con la peste raccontata da Manzoni nei Promessi sposi. La folla in tumulto assalta il forno delle Grucce per protestare contro il rincaro del pane. Questo episodio è paragonabile alle rivolte cui abbiamo assistito in tutta Italia in questi giorni con infiltrati, forse, di gruppi estremisti. Anche al forno delle Grucce c’erano dei fomentatori. Un altro parallelo interessante è con Don Ferrante che nel romanzo è un negazionista. Don Ferrante sostiene, infatti, che la peste non esista, usando a supporto della sua teoria ragionamenti para filosofici così come fanno oggi quelli che negano l’esistenza di questo virus. E il carro che portava via i morti di peste? Non ti fa venire in mente le immagini dei camion a Bergamo? Della peste del 1600 abbiamo ricordi grazie al Manzoni, ma della Spagnola per esempio? La Spagnola fu forse un’epidemia anche peggiore della peste, anche perché arrivò nel 1918, alla fine di una guerra mondiale che aveva decimato l’intera Europa. Che cosa sappiamo però davvero di quegli eventi? Sappiamo pochissimo, non ne abbiamo quasi memoria, eppure son morti a milioni. La storia è maestra nel cancellare le sue tracce. La vita ricomincia, alcuni fatti si ripetono, ma noi tendiamo a scordarli. Per questo è importante avere sempre il dono della curiosità. Quello che intendevo dire in quella canzone è proprio questo: ciò che conta di più non è tanto avere sempre delle risposte nella vita, ma farsi continuamente delle domande, chiedersi dalle cose più semplici, come il significato di una parola, al significato intero dell’esistenza». Rifletto e faccio una pausa mentre leggo i miei appunti.
FG «Dai pur». Mio padre è sempre maestro nel parlare di argomenti dotti e far ridiscendere tutto immediatamente in terra con una frase in dialetto, o una battuta.
TG «Un attimo, babbo! Stavo pensando a quello che mi hai appena detto, e poi ho scritto i miei appunti talmente in fretta che non capisco la mia calligrafia».
FG «Chi non capisce la sua scrittura è proprio un asino di natura».
TG «Ecco. Appunto!». Sorrido e penso che queste sono proprio le frasi di nonna Ester, sua madre, famosa per queste sue massime. Riprendo a parlare. «Sai babbo, ciò che dici è vero. A me però in questo periodo ha aiutato molto tornare al passato. Ho sentito l’esigenza di scoprire da dove vengo, chi sono i miei antenati. Mi ha aiutato a capire dove voglio andare davvero. È stato un modo per scansare la quantità, quasi ossessiva, di notizie che ci sono state rigettate addosso in modo quasi bulimico. Avevo bisogno di qualcosa di stabile che potesse rassicurarmi, anche perché mi chiedo cosa resterà di tutti questi articoli e informazioni che restano un giorno sui social network per poi sparire. Quale sarà la memoria del nostro tempo se è tutto fatto per durare solo nell’attimo esatto in cui è letto, per essere subito cancellato da qualcos’altro di più nuovo?».
FG «Io non frequento e non guardo i social media, lo sai. So che danno modo a tante persone di esprimersi come se fossero saggi. Voglio dire, per parlare di certe cose devi avere l’autorevolezza per poterlo fare. Una volta in casa mia si comperava solo un settimanale ogni tanto perché non c’erano i soldi per comperarne di più e si leggeva dalla prima all’ultima pagina. Sulla Domenica del Corriere, per esempio, leggevamo dalla rubrica Chi l’ha visto fino alle barzellette. Ora, quando arriva il giornale tutti i giorni, si legge solo ciò che ci interessa e si tralascia il resto. Quante notizie ci affollano? Quanti telegiornali ci sono in un giorno e di diverso tipo e fazione? Non si può seguire tutto e forse, tutto sommato, era meglio quando le notizie erano poche e venivano valutate e lette con maggiore cura e attenzione».
TG «Allora vedi che ho ragione a cercare di rifugiarmi, a volte, nel passato per avere dei punti fermi, e poi, questa sacralità verso la memoria l’avrò imparata in casa. Hai costruito una intera carriera sulle radici tanto da chiamare così anche un tuo album, hai messo in copertina i nostri antenati, senza pensare poi al fatto che mi hai dato ben tre nomi presi tra quelli delle tue nonne e zie».
FG «Ma Teresa, la curiosità verso i nostri predecessori fa parte delle curiosità che bisogna avere nella vita; curiosità delle parole, curiosità in generale del perché accadono le cose, curiosità verso i fatti recenti della storia che è doveroso ricordare per non ripetere certi errori. L’altro giorno ho visto un’intervista a due reduci della Decima Mas. Parlavano dell’Italia che, a loro dire, hanno difeso con onore anche dopo l’8 settembre. Questi signori non pensavano ai loro alleati germanici che mandavano la gente in campo di concentramento? Che cosa vuol dire combattere per l’onore dell’Italia? Di quale onore parliamo se i loro alleati sterminavano milioni di persone nei campi? Le ideologie spesso offuscano e la memoria è corta, ma sono questi periodi di storia recente che noi dobbiamo ricordare perché purtroppo molti episodi nella storia si ripetono».
TG «Babbo, se volessimo spostare il discorso alla musica, pensi che anche la discografia stia vivendo il problema che vive l’informazione? Per spiegarmi meglio: pensi che le nuove modalità di ascolto attraverso le piattaforme digitali abbiano modificato il modo stesso di fare musica portando a una continua invasione di brani dove non si sa nemmeno più cosa ascoltare? Canzoni e artisti che scompaiono così come sono apparsi, senza storia e di cui non resterà memoria? Non tutti ovviamente, ma buona parte».
FG «Il mondo della discografia è cambiato, io non lo conosco più e non mi interessa. Ho smesso di fare il cantautore anche perché non capivo più il modo di fare musica che c’è adesso, oltre al fatto che non mi venivano più canzoni. Una volta, se volevi ascoltare musica nuova, andavi in un negozio di dischi! Questi negozi c’erano anche nei piccoli paesi mentre ora non esistono più nemmeno nelle grandi città. Noi ragazzi non andavamo solo per cercare un artista in particolare ma per vedere se era uscito qualcosa di nuovo, di diverso, e i dischi non si ascoltavano e basta ma si prendevano in mano, si toccavano, si sfogliavano, avevano una loro importanza anche fisica. Era un altro mondo, molto diverso da quello di adesso».
TG «Come spieghi che molte tue canzoni siano riuscite a sopravvivere a epoche e mode così diverse. Come spieghi che le tue canzoni siano ascoltate ancora oggi, non solo dai tuoi coetanei, ma da ragazzi adolescenti che hanno conosciuto la musica adesso, attraverso modalità che sono anni luce dalle tue e in un periodo storico lontanissimo dalla tua generazione».
FG «Adesso hanno fatto questo disco con le mie canzoni cantate da altri artisti (Note di Viaggio – BMG). Tutti quanti, non so se sinceri, ma spero di sì, hanno detto che hanno avuto piacere di cantare le mie canzoni perché sono ancora valide oggi, perché i testi sono ancora attuali. Io non ho mai scritto canzonette ma canzoni che riguardavano la mia vita. Le mie erano vere e proprie canzoni esistenziali, riguardavano fatti che avevo vissuto, persone che avevo incontrato. A volte, riascoltandole, mi commuovevo, si fa per dire, perché mi venivano in mente i momenti esatti in cui le avevo scritte».
TG «Questo ti ha reso coerente?».
FG «Può darsi, ma questo è un altro discorso! Coerenza è non dipingersi il culo di verde per avere pubblicità. Io non ho mai fatto nulla che non giudicassi giusto fare. Non ho mai venduto detersivi. Ricordo che mio padre, guardando la tv, se vedeva un certo attore fare una pubblicità di un qualche prodotto, diceva sempre: “Ma quel signore lì non ha guadagnato abbastanza che deve sputtanarsi facendo la pubblicità di un detersivo?”. Come ti dicevo, io non l’ho mai fatto, e anche questo è essere coerenti con le proprie idee».
TG «Negli anni ’80 ti avevano offerto di fare la pubblicità di un noto marchio di jeans e tu ti rifiutasti, me lo raccontò Fantini (produttore e manager storico di Guccini, ndr)».
FG «Forse, non mi ricordo». Ridacchia.
TG «Quindi la chiave di quella che in molti chiamano coerenza è stata forse l’onestà con te stesso nello scrivere, il permetterti di raccontare i tuoi pensieri senza pensare al pubblico o a uno stile, senza manierismi?».
FG «Lo scrivere canzoni era parallelo alla mia altra vocazione, quella di scrittore. Io non sono diventato improvvisamente scrittore, lo sono sempre stato. Il mio modo di scrivere canzoni era uguale a quello di scrivere libri o racconti. Io speravo di riuscire a dire delle cose che potessero rimanere nel tempo, essere valide 30 anni fa come oggi. Orazio, poeta latino, scrisse in una delle sue Odi: “Ho portato a termine un monumento più duraturo del bronzo/più alto della immortale mole delle Piramidi (…)”. Non voglio paragonarmi a Orazio, so benissimo di non avere la sua grandezza e la sua vastità poetica, però qualcosa di questo nel mio intento c’era. Se qualcosa delle mie canzoni potrà restare sarò felice, perché desideravo proprio riuscire a scrivere qualcosa che potesse rimanere nel tempo».
TG «Questo a me, babbo, sembra un modo per sopperire all’angoscia del tempo che passa, alla morte, tu che, da agnostico, non hai certamente sollievo nella fede, per quanto io ritenga che ci sia più Dio nelle tue canzoni che in altri autori».
FG «Può essere, ma è inconscio».
TG «Questa tua prudenza invece deriva dall’educazione, dall’esempio che ti ha dato il nonno?».
FG «Da una certa prudenza montanara».
TG «Io credo che il nonno ti abbia consegnato molto della sua esperienza: il campo di concentramento dove andò come IMI (internati militari italiani, ndr), l’aver scelto di restare là, confinato, piuttosto che aderire alla Repubblica di Salò e poter tornare a casa. Questo è un insegnamento di coerenza notevole».
FG «Mah, non lo so, in casa non se n’è mai parlato».
TG «So che non se n’è mai parlato, ma l’esempio silente di un padre, derivante da un passato così forte, vale più di molte parole e non può non averti influenzato. È un imprinting. Sento di averlo assorbito io, figurati come può aver influenzato te».
FG «Forse».
TG «Dalla tua espressione annoiata mi sto aspettando un tuo: Ela lònga? (È ancora lunga? In dialetto modenese)».
FG «Difatti».
TG Rido. «Ne ho ancora per poco, babbo». Mio babbo grugnisce, odia stare al telefono. È di quelle generazioni per cui il telefono serve a comunicare informazioni brevi e importanti, non concepisce il “far salotto”. Ricordo che, a volte, quando mia mamma restava al telefono per ore a chiacchierare con qualche amica, lui sarcastico le portava un bicchiere di acqua “per rinfrescare le fauci”, con l’umorismo tipico di casa nostra.
TG «Babbo, è da quando sono piccola che mi dici di scrivere, era il tuo modo di rispondermi ogni volta che osavo dirti che mi annoiavo; tu mi guardavi e mi dicevi imperioso: “Si annoiano solo gli stupidi! Leggi, scrivi!”, quasi come se lo scrivere fosse la panacea per tutti i mali. Io però non ti ho mai chiesto: “Babbo, perché scrivi?».
FG «Ho sempre scritto perché mi piace, perché ho letto tanto, e a chi legge tanto viene naturale provare a imitare ciò che ha letto. Un maiale, se lo nutri bene, con pastoni succulenti, quando lo sacrifichi è ovvio che darà un prosciutto o un salame migliore. Se riempi una persona di buone letture qualcosa saprà produrre. Io non mi sono inventato scrittore, lo sono sempre stato».
Questa risposta mi convince fino a un certo punto; non è matematico che la lettura porti alla scrittura. Credo che, in fondo, ci sia qualcosa di più profondo in lui, un’esigenza di fissare qualcosa che si rischia di perdere perché la memoria è fallace e i ricordi ci sfuggono in fretta se non li si afferra velocemente, così come si rischia di dimenticare il volto di chi non c’è più, o i luoghi che non possiamo più frequentare. Qualche tempo fa, mentre io mi lamentavo di un luogo a me caro che rischio di perdere, mentre ero presa dalla foga del parlare, lui mi zittì dicendo. «Scrivine». Mi gelò. «Scrivine? In che senso?». E poi capii. Scrivere fissa il ricordo e il pensiero così che non possano più svanire, così che nessuno, qualsiasi cosa accada, ce li possano più rubare. È stato allora che ho intuito, forse, il senso del suo scrivere, la sua esigenza quasi vitale. Penso a questo mentre lui incalza scherzoso:
FG «Non fare come i giornalisti che mi dicono che hanno un’ultima domanda e me ne fanno altre sedici, che non ne ho più voglia».
TG «Ma io non sono una giornalista». Rido. «E poi stiamo chiacchierando! Adesso ti lascio andare» gli dico, mentre starei con lui a parlare molto altro tempo, ma lo vedo che è già stanco. «Babbo, pensi che quando finirà tutto, “avremo una voglia di ballare che fa luce”, come hai detto in qualche intervista?».
FG «Ma con quella frase mi riferivo al ’45, c’erano appena stati cinque anni di guerra, non scherziamo! Non è nemmeno paragonabile. C’era voglia di tornare a vivere, di sorridere, di tornare a ballare. C’era voglia di vedere ricostruite le strade, le città, di concedersi qualche lusso come bere il “caffè caffè”, quello vero intendo dire, che allora ti chiedevano: “Vuole bere un caffè caffe?”, per far vedere che in casa c’era il caffè vero, mica scherzi, non la cicoria o qualche altro surrogato. Questa pandemia ci sta portando delle restrizioni, ma qualche mese non è paragonabile a cinque anni di guerra».
TG «Ma forse noi siamo più viziati. Non abbiamo mai vissuto niente del genere».
FG «Ma pensa a quei ragazzi che sono partiti e tornati dopo tutti quegli anni, soffrendo privazioni ben più grosse di dover stare chiusi in casa per un po’ circondati da ogni comfort, o di dover fare lezione attraverso il computer e ovviamente non parlo di chi sta male, di chi fa turni estenuanti negli ospedali, di chi è costretto in qualche ospizio senza poter vedere i famigliari o di chi sta affrontando notevoli difficoltà economiche».
TG «Hai ragione, babbo, ma ognuno si comporta in base al proprio vissuto».
FG «Sì, forse sì, ma dai, lasciami andare che è ora di cena adesso, sono già le otto. Ti saluto. Stammi bene».
TG «Ciao babbo. Ti chiamo presto». Il computer si spegne e resto lì con i miei appunti su cui pensare. Parole da riordinare e pensieri che per me vanno oltre le banali risposte. Penso che, a volte, io abbia ancora bisogno di sapere cosa pensa, di parlare con lui come facevamo a cena in casa, tutte le sere, che poi a scuola campavo di rendita per settimane grazie a quelle conversazioni che mi aiutavano a ragionare e a pensare, un po’ come «andare a sciacquare i panni in Arno». Poi penso che, forse, in realtà, la chiave di tutto è che io possa trovarlo ogni volta che mi siedo davanti a un foglio bianco mentre impugno una penna. È lì che sta la mia eredità, è lì dove possiamo incontrarci ed esistere insieme, e allora «A presto, caro babbo», corro a scrivere anche questa sera per ritrovarti ancora un pochino.