Francesco Guccini è tornato in libreria con Tralummescuro. Scrive di una Pavana, paese d’infanzia e suo buen ritiro, in cui i camini non fumano più. Ne racconta il tempo andato. Srotolando il filo dei ricordi e con un vocabolario tutto pavanese, tratteggia volti e caratteri del passato in un romanzo che suona come una ballata.
Partiamo dal titolo, Tralummescuro.
«Significa all’imbrunire».
Nella lingua di Pavana. Come mai questa scelta?
«È venuta naturale. Questo è il mio quarto romanzo personale. Il primo, Cròniche Epafániche, parlava di un paese vivace, pieno di gente. Ora Pavana si è svuotata: è al tramonto, all’imbrunire, appunto. E per scriverne ne ho usato il gergo, il parlato».
Anche in questo libro, scritto nella lingua di Pavana, come nel resto della sua produzione manifesta tutto il suo amore per la parola, il piacere della sua scoperta.
«Il dialetto è ormai in disuso. Io conosco quello modenese di mia madre e quello pavanese di papà. So dire “prurito” in tre parole. E così “fionda”. Sei vocaboli al posto di due».
Una ricchezza.
«Sì, in questo senso è come un pittore che ha a disposizione più colori».
Lei si è dedicato all’arte della parola. Le dispiace non aver coltivato la pittura?
«Qualche disegno l’ho fatto anche io. E nutro invidia per chi ha quel talento».
Ha scelto la mano di Gino Covili, per la copertina di Tralummescuro.
«Le sue opere mi sono sempre piaciute molto».
Tralummescuro racconta di un mondo che non c’è più. Possiamo dire che è la malinconia il sentimento dominante?
«Un po’ di malinconia c’è. Ma c’è anche tanta ironia».
Nel libro racconta com’era Pavana. Fuori da quella casa sul confine dei ricordi, com’è il suo sguardo sul resto del mondo?
«A quest’età si è cinici e scettici».
Lei ha sempre avuto una memoria di ferro. Lo dimostrano libri come questo uscito per Giunti pochi giorni fa. È stata mai un fardello?
«No. Mi aiuta. Credo mi venga dalla civiltà contadina e dalla cultura orale. Dalla necessità che c’era un tempo di tenere a memoria. Poi la scuola. Mi tornano ancora alla mente le poesie che studiavo allora. E so tantissimi numeri di telefono a memoria, quando adesso vedo che li memorizzano tutti sul computer. Credo di averla sempre esercitata per le canzoni. Non potevo certo dimenticarmele».
Voleva diventare uno scrittore. E ci è riuscito. Come va questo suo secondo tempo professionale?
«Bene. Anche se tutti vogliono ancora farmi parlare di canzoni».
Ha iniziato come giornalista…
«E ho lasciato. Mi pagavano pochissimo, non mi facevano un contratto e si lavorava tutti i giorni della settimana. Ho smesso perché ho trovato da suonare in una banda».
A giugno compirà ottant’anni. A Bologna, in Comune, le stanno preparando un omaggio. Vogliono celebrarla come si deve. Sa già cosa l’attende?
«Ma no, non voglio nessun tipo di omaggio. Sto qui sui miei monti. Ringrazio ma non serve, davvero. Mi aspetto di andare più avanti degli ottanta…».
Si è sentito amato da Bologna?
«Molto. Ma l’ho amata molto anche io. E l’amo ancora. Certo, c’è un traffico insopportabile, ma …».
Cosa ha amato di più di Bologna?
«La mia giovinezza. Le serate passate a suonare e cantare. La gente che si incontrava. Il quartiere in cui abitavo. Tantissime cose».
Tutto cambia. Cambiamo noi. È cambiata Pavana. E così anche Bologna. Cosa vorrebbe che Bologna non perdesse mai?
«Lo spirito di cordialità, quello che aveva e la rendeva speciale. Ora, invasi da televisioni e telefonini, tendiamo a dimenticarci del prossimo. E non va bene».
A Bologna c’è chi ultimamente ricorda spesso questo concetto. E la cui presenza ha arricchito questa città sotto il profilo etico e politico. Mi riferisco all’arcivescovo Zuppi, un gucciniano convinto.
«Tenetevelo caro e amatelo molto Matteo, perché se lo merita. Non solo come sacerdote ma soprattutto perché è una grande persona».
Articolo di Francesca Blesio tratto dal Corriere della Sera – Bologna del 19 settembre 2019