Non è facile scovare Guccini nella sua Pavana. Usciti dall’autostrada a Bologna c’è da guidare ancora un’ora sulla strada che si arrotola sulle colline in direzione Pistoia tra boschi, paesini e trattorie per camionisti abbandonate da anni. Sul più bello, poi, la statale s’interrompe per una frana e ciao, bisogna parcheggiare la macchina. È maggio ma a Pavana, 400 anime, c’è ancora un po’ di neve.
Francesco Guccini divide con altre famiglie una vecchia casa rustica ma elegante. L’appartamento in cui vive con la moglie Raffaella trabocca di libri, la loro grande passione comune. C’è un buon odore di edificio di campagna: un misto di calce, umidità e fumo di camino. Dalle finestre del stanza da pranzo si vedono le colline e, nei momenti di silenzio, s’intuisce il fruscio lontano del fiume.
Arrivare fin qui scoraggerà i fan.
«Mah. A dire il vero arriva gente di continuo. Per salutarmi, per una foto, per l’autografo. A volte mi nascondo».
E cosa le dicono, i fan?
«Mi ricordano aneddoti su concerti che nemmeno ricordo d’aver fatto. Molti mi raccontano che le mie canzoni hanno un ruolo fondamentale nella loro vita. Quasi tutti».
Quando ho detto ai miei amici che sarei venuto a trovarla anche loro mi hanno chiesto di dirle la stessa cosa. E di ringraziarla.
«Di cosa? Sono innocente».
Perché è tornato a vivere in questo posto sperduto?
«Una volta non era come lo vede adesso, sa? D’estate al fiume era pieno di ragazzi, c’erano villeggianti, piste da ballo, perfino un cinema. Al fiume c’è ancora il mulino di mio nonno, dove vivevo con tutta la famiglia quando siamo scappati da Modena ai tempi della guerra».
Non ha mai voglia di tornare in città?
«No. Succede che abbia impegni in giro per l’Italia, ma torno qui sempre molto volentieri. Il rammarico semmai è d’essere tornato a Pavana troppo tardi, quando ormai il paese si era svuotato».
Come passa il tempo da queste parti?
«È stato qui, ancora ragazzino, che ho iniziato a leggere voracemente di tutto. Di tutto, nel vero senso della parola: dai sussidiari di scuola del nonno ai romanzi d’appendice che collezionava mia zia. Lei era l’intellettuale di famiglia, aveva viaggiato. Faceva la cameriera da una famiglia di Genova. Raccoglievo in giro anche le storie d’avventura francesi di quelle che uscivano con i settimanali per ragazzi, solo che mancavano sempre dei pezzi: i protagonisti alla fine di una puntata erano su un aereo diretti verso un’isola deserta e la settimana dopo mne li ritrovavo tra i cunicoli di una miniera senza capire perché. Ma pur di leggere mi andava bene tutto. Ora purtroppo ho dei problemi di vista e non posso più leggere. Un dolore: è tutto molto più complicato».
Tutti i bei libri che sono in questa casa chi li legge?
«Di pomeriggio viene una ragazza a leggere ad alta voce per me. E la sera è Raffaella che mi legge delle pagine prima di dormire. Anche lei è appassionata di letteratura. Ora siamo su Gianrico Carofiglio. Ma sul tardi, dopo aver guardato qualcosa in tv. Ci piacciono le serie».
Le sue preferite?
«“I Tudors”, “Vikings”, “Das Boot”. Di pomeriggio, poi, mi guardo Rai Storia da solo».
E di musica ne ascolta?
«No. In casa sento quello che mette mia moglie. Zucchero, Capossela, Fabri Fibra».
Niente Guccini?
«Quando Raffaella prova a mettere una mia canzone gliela faccio subito togliere».
Non ha un buon rapporto con le sue canzoni?
«Ho un ottimo rapporto. È che non mi va di sentirle».
Ora esce la sua discografia in vinile. Se lo ricorda il primo Lp che ha comprato?
«Era strumentale, di armonica a bocca: pagato con 50 lire che mi aveva dato mia nonna. Il mio entusiasmo durò poco, perché non avevo un giradischi. Ed ero triste perché non avevo più le mie 50 lire».
La sua prima chitarra?
«Me la regalò mia nonna, la fece costruire al falegname di Porretta, Celestino Venturi, per 5.000 lire. Tra l’altro Celestino è ancora in circolazione, devo ricordarmi di chiamarlo».
La prima canzone che ha scritto?
«Ho fatto le magistrali e c’erano due ore di musica a settimana. Decisi di cimentarmi con il pianoforte perché era la scelta fatta dalle ragazze più carine della scuola. Un giorno dissi alla mia insegnante: “Lo sa che ieri ho scritto una canzone?”. E lei, cinica: “Sì, certo, anch’io in passato ho creduto d’averlo fatto”».
La storia ha poi smentito la sua professoressa.
«Ma aveva ragione, quella mia canzone era terribile. Una scopiazzatura di “Only you” dei Platters con un improponibile testo d’amore».
Non le viene mai voglia di scriverne una nuova?
«No. E non sono mai riuscito a scrivere a comando. Le canzoni arrivavano quando arrivavano. Come per uno scrittore. In fondo è lì che sono tornato (il suo prossimo libro uscirà in autunno, ndr). E forse lì avrei dovuto iniziare».
Cosa la rende felice, a parte i libri?
«Andare a funghi nel bosco, ma ormai non li vedo più… E mi piace uscire a cena: per esempio ora è tempo di tagliatelle con i prugnoli, ii secondi funghi dell’anno dopo il disgelo. Anche se in trattoria Raffaella mi tiene a stecchetto, ormai. Un paio d’anni fa mi ha pure fatto smettere di fumare, nonostante l’avessi avvisata: guarda che sarò irritabile per un po’. Mi hanno aiutato i brustolini (i semi di zucca tostati, ndr). Che buoni, i brustolini. Una volta al cinema c’erano solo quelli. Monrtagne di brustolini tra le quali dovevi farti strada per guadagnare un posto in platea. Mica come ora che entri e senti quell’odore nauseante di popcorn».
E poi fuori dalle sue finestre c’è il paradiso.
«Sì, ma io soffro a vedere il passaggio delle stagioni. Da un lato mi affascina, dall’altro mi immalinconisce. Per esempio, dal prossimo mese le giornate inizieranno già ad accorciarsi. E questo mi fa soffrire».
Che cosa la fa ridere, invece?
«Le barzellette, da sempre. Ma ora non vanno più di moda e da tanto tempo non ne sento una buona».
Domanda interessata: c’è una buona osteria in zona?
«Mi faccia sfatare questo mito: io non m’intendo di osterie. Conoscevo le tre di cui ho sempre parlato. Punto».
Com’è nata la leggenda?
«Diciamo che a parte i dischi d’esordio io, registrata la mia parte, lasciavo che fossero i musicisti a pensare al resto. Non sono mai stato un precisino, non stavo lì a spaccare il capello per ogni suono. Realizzare i miei dischi costava poco tempo e poco denaro, e questo faceva aprire i cordoni alla casa discografica per la nota spese. Che veniva largamente usata per cenare con gli amici durante il periodo delle registrazioni».
Almeno il palco le manca?
«A volte sì. Mi manca quella botta d’emozione davanti a migliaia di persone. Ma metteva anche ansia. E ho imparato che si può fare a meno di quasi tutto. Pensi, non ho mai avuto un cellulare».
Vede qualcuno dei suoi colleghi?
«Capita che passino di qui, magari per farmi sentire le loro nuove canzoni. E poi ogni tanto ci invita Zucchero a casa sua. È sempre bello. Alla fine ci mettiamo a cantare con la chitarra».
Mai quelle di Guccini, però.
«No, mai quelle di Guccini».
Però questa cosa è strana da mandar giù, lo sa?
«Le spiego, allora. Mio nonno aveva un mulino giù al fiume. C’è ancora adesso, se vuole andarlo a vedere, l’ha ristrutturato un cugino. Il nonno lo usava per fare la farina di mais e di castagne, che poi era ciò che ci nutrì durante la guerra. Lei mi dirà: “Con la farina di castagne si preparano un sacco di cose buone”. Sarà, ma io ne ho avuto la mia parte, grazie. Lo stesso vale per le mie canzoni».
Ce n’è una in particolare che lei giudica sopravvalutata?
«“L’avvelenata” neanche la volevo inserire nell’album, furono i miei musicisti a convincermi. Credo che sia diventata famosa solo per via delle parolacce nel testo. Ma in generale tutti mi parlano sempre delle solite tre o quattro, che per me non sono le più belle: “Dio è morto”, “La locomotiva”, “Incontro”. Mi dica le sue preferite».
“La canzone delle domande consuete” e, in questo periodo, “Bisanzio”.
«“Bisanzio” è una canzone robusta. Lo sa perché quel verso dice: “Che importa questo mare se era azzurro o verde”?».
Ehm. No.
«Erano i colori delle due fazioni all’epoca di Giustiniano a Bisanzio. In realtà contiene parecchie inesattezze storiche e qualche accavallamento cronologico. Ma trasmette il senso di indeterminatezza, di fine di un’era. Che poi era ciò che volevo rappresentare».
Una volta ha detto che ascoltando “Luci a San Siro” di Vecchioni ha pensato: «Maledizione, perché non l’ho scritta io». L’ha pensato spesso, nella sua carriera?
«Mille volte».
L’ultima?
«Non saprei dirle. Ma una di quelle che me l’ha fatto dire spesso è stata “Come è profondo il mare” di Lucio Dalla».
Articolo tratto da Tv Sorrisi e Canzoni del 21 maggio 2019