Fra la Via Emilia e il West
IL DISCO
“Fra la via Emilia e il West” è il dodicesimo album di Francesco Guccini e il suo terzo dal vivo.
Si tratta di un doppio disco, uscito nel 1984, registrato il 5 giugno al «Kiwi» di Piumazzo (Mo); il 21 giugno in Piazza Maggiore a Bologna; il 3 luglio al Parco Pellerina di Torino; il 15 settembre al Teatro Tenda Lampugnano di Milano.
Con Guccini alla voce e alla chitarra hanno suonato: Ellade Bandini (batteria), Juan Carlos «Flaco» Biondini (chitarre), Francesco Guccini (voce e chitarra), Antonio Marangolo (sassofoni), Ares Tavolazzi (basso), Vince Tempera (pianoforte e tastiere).
Prodotto da Renzo Fantini, il doppio live è stato registrato e missato da Ezio De Rosa.
La copertina e le fotografie sono state curate da Maurizio Cercola. Foto panoramiche di Ferrari, Pinto e Serafini (Studio FIN), mentre il disegno interno è stato realizzato da Bonvi.
L’album è stato distribuito in formato LP, MC e CD.
Di “Fra la via Emilia e il West” sono disponibili gli spartiti pubblicati da Edizioni Musicali La Voce del Padrone.
CURIOSITA’
L’album non contiene alcun inedito.
Fra la via Emila e il West» è un verso della canzone “Piccola città” in cui Guccini parla di Modena. Ecco cosa dice nel testo che accompagna l’album:
«La via Emilia tagliava Modena in due; la strada dove abitavo, da una parte, si incrociava con essa. Dall’altra parte c’erano già gli ampi campi della periferia. Erano un po’ il nostro “West” domestico: bastava fare due passi, o attraversare una strada, e c’erano già indiani e cow-boys, cavalli e frecce; c’era, insomma, l’Avventura, tradotta in “padano” dai film e dai fumetti. Poi la via Emilia continuò a tagliare Modena in due, ma il West aveva volto diverso, e il “mito americano”, quello di tante generazioni oltre alla mia, parlava lingua diversa, quella del rock, delle copertine dei dischi, della faccia di James Dean in Gioventù bruciata, dei libri che altri appena prima di noi avevano scoperto e voltato in italiano. Ma i due riferimenti esistevano sempre, un piede di qua e uno di là, il sogno (meglio, l’utopia) e la realtà…»
RECENSIONI
Da “Ciao 2001” dell’8 Luglio 1984 di Piergiuseppe Caporale
Uno degli handicap più frequenti nel mondo della nostrana musica leggera, uno di quegli handicap che impedisce spesso ogni tipo di progresso di scambio, di valutazione autentica che travalichi i semplicisti confini della promozione, è il fatto che i cosiddetti artisti italiani, ben difficilmente hanno il coraggio, o la voglia (nel migliore dei casi) di cimentarsi su un palcoscenico insieme ai loro simili. Lo sanno bene i televisivi, lo sanno bene gli impresari, lo sa bene chi scrive o comunque agisce nell’ambito della cronaca e della critica quanto è difficile (addirittura impossibile) organizzare un vero spettacolo misto, che metta insieme artisti più o meno dello stesso calibro. Le motivazioni sono ancora da scoprire. O meglio: tutti le sappiamo ma ben pochi hanno Il coraggio di dirle. Alla base c’è sempre quel misto di presunzione e paura che fa scaturire battute del genere: “chi, io insieme a quel brocco?”, oppure “non si può rovinare lo spettacolo mettendo insieme i fuoriclasse ed i camminatori’, o ancora “il playback rovina lo spettacolo e diventiamo tutti uguali”, eccetera eccetera. Quello che è certo è che ci vuole non tanto un bel coraggio, quanto una buona dose di onestà e di sicurezza per accettare quello che, in apparenza, potrebbe sembrare addirittura una competizione, che potrebbe mettere in piazzai limiti vocali o interpretativi, che potrebbe veramente far scoprire la differenza fra prodotto di sala d’incisione ed autenticità artistica vera e propria. Così, per contro, quasi tutti accettano la passerella al massacro, i tapis-roulant con trenta-artisti-trenta che si alternano a ritmo vertiginoso per realizzare l’ultima saponetta in vinilite. La scusa c’è sempre ed e una giustificazione morale di chiara marca farisaica (“bisogna pur far conoscere quello che facciamo”). Quando poi, magari, il singolo artista ci starebbe pure, arriva il discografico che di paure ne ha anche lui due, magari di differente natura rispetto al suo artista: da una parte che la valutazione di merito dia più spazio ad altri e dall’altra la convinzione (erratissima) che il confronto sia sempre a danno e non a vantaggio. Ce ne accorgiamo anche noi della carta stampata: guai a fare un articolo misto guai a paragonare – ma che dico! – anche solo ad accomunare sulla stessa pagina due artisti (a volte lo spunto è dato soltanto dall’età di quelli presi in esame o dal sesso). Come minimo l’articolo non conta quando addirittura non piovono le proteste. Ecco anche perché, una volta che le nostre convinzioni (dettate, come si può ben comprendere, dall’esperienza), vengono smentite, non si può fare a meno di rimanere di stucco, di rendersi conto che c’è gente di serie A e di serie B, e che l’artisticità, con tutto ciò, non c’entra (o c’entra relativamente). In ballo c’è soltanto l’umanità, in ballo rimangono solo i sentimenti, in ballo ci può essere anche – ebbene sì – un sentimento ormai obsoleto come l’amicizia. Ed è quanto capitato a Bologna il 21 giugno scorso, in teoria programmato in Piazza Maggiore, in pratica coinvolgente molto più di una piazza di una città stessa. Se infatti in una città che ci assicurano non supera i 450.000 abitanti, si radunano più di 160.000 persone (sono le valutazioni della P.S.), è ben difficile che si tratti della metà della cittadinanza. Anche se a richiamare tutta quella gente c’è un’occasione che si chiama Guccini & friends. La nostra descrizione di quella che è un’occasione letteralmente irripetibile, non sarà – una volta tanto – meramente cronachistica o tecnicamente imparziale. Come si fa, infatti, ad essere imparzialmente non coinvolti in una occasione che non ha precedenti, che ha come unica motivazione lo stringersi intorno ad un amico cui si riconosce un merito incontestabile, quello di essere stato ed essere sempre. sé stesso?
Sì perché i Gaber, i Conte, i Dalla non hanno avuto alcuna remora, così come i Nomadi, l’Equipe ’84, l’Assemblea Musicale Teatrale, non hanno avuto alcuna paura, così come Deborah Kooperman, Claudio Lolli, Andy Forest, hannoavuto soltanto affetto… ma è lo stesso sentimento che ha coinvolto tutti su quell’immenso palco e davanti e dietro le quinte. Tutti eravamo lì perché a Francesco Guccini vogliamo bene, perché tutti gli dobbiamo qualcosa, non foss’altro che per essere l’unico monumento alla coerenza che il buffissimo mondo della musica leggera rinnega per istituzione. È certo che – sempre una volta tanto – l’occasione era umana! Pensate un po’: non c’era nulla da promuovere, le canzoni che su quel palco sono state eseguite costituivano veramente vent’anni di pensiero (politico ed anche semplicemente poetico), da “Auschwitz” fatta da un’Equipe ’84 per l’occasione ricostituita, a “Dio è morto” dei Nomadi, da “Piazza grande” di Dalla, a “Il sociale” di Gaber, dagli “Zingari felici” di Lolli a “Genova” di Paolo Conte, da “Venezia” di Alloisio a… Se n’è accorta anche la televisione di Stato, una volta tanto non afflitta da miopia, che con la Seconda Rete ha ripreso tutto – ma proprio tutto – con una dovizia di mezzi tecnici e di personale in gamba (la crema, quasi, della struttura, capeggiata da quel dirigente illuminato che è Alberto Argentini), di solito utilizzata soltanto per le manifestazioni sportive a carattere mondiale o per congressi dei partiti di maggioranza (sic!). Il tutto andrà in onda a più riprese e molto presto! Insomma eravamo tutti lì, quasi un raduno di ex-alunni (ma non di reduci): c’era Amilcare Rambaldi insieme ad una nutrita rappresentanza del Club Tenco, c’era Magnino di Silla (il grande rivale di Guccini nell’improvvisazione a braccio), c’era Bonvi commosso, lacrimoso ed etilico che già aveva disegnato lo stupendo manifesto, c’erano i pasticcieri bolognesi con una torta gigantesca (sei metri d’altezza) per il compleanno del barbuto, c’era tutto il club Vito con Tobia e Cremonini in testa, c’era anche un manipolo della carta stampata, costituite; dai quattro-cinque immancabili, ma c’era soprattutto una folla oceanica eppur tranquillamente esaltata, chiaramente accorsa ad un appuntamento d’affetto e non ad un’occasione spettacolare. Un pubblico che definire meraviglioso sarebbe soltanto limitativo, un pubblico che pur intasando per chilometri le anguste strade che portano a Piazza Maggiore, non spingeva, non litigava, non prevaricava, non era, insomma, quell’idra a più teste che abitualmente si crede. Insomma tutte good vibrations, evidentemente causate dall’occasione, dal gigante barbuto che da vent’anni ci canta quello che pare e piace a lui, che da vent’anni se ne sbatte di mode e di inviti (sia politici che discografici), che da vent’anni continua a dire la sua. E sì che le sue canzoni non fanno ballare nessuno, e sì che la serietà e la crudezza di certi suoi temi sono spesso da lui stesso ironizzati e dissacrati, e sì che a quarant’anni suonati potrebbe ancora sembrare un ragazzino terribile che si rifiuta di crescere. O forse è proprio quest’ultima ipotesi? Vero Francesco? Un po’ come per tutti noi…